Oggi esce INNOCENCE , un doppio CD edito dalla AUAND RECORDS, che contiene brani
inediti eseguiti in piano solo da Luca Flores.
Luca ci ha lasciato nel marzo del 1995, dopo la sua morte fu pubblicato l'album
“For Those I Never Knew “, da allora non sono state rese note altre
registrazioni a suo nome.
Negli anni ci sono state molte iniziative per ricordarlo,un libro, il film e
tanti concerti. Ma … forse si è premuto un po troppo il dito sulle ferite che si
portava addosso e si è perso un po l'Artista.
Questa nuova pubblicazione ci ridona l'Artista. Un uomo desideroso di realizzare
qualcosa di grande. Un progetto ambizioso, creativo, che lo ricongiunga alla sua
infanzia. Anche quando si rende conto che i mezzi per realizzarlo non saranno
sufficienti non perde l'intenzione, così continua a registrare.
Col solo piano riesce a contenere gioia e dolore, allegria e tristezza, buio e
luce, bianco e nero. Ogni elemento si muove sinuoso e sfuggente sfiorando
l'altro ma senza invaderlo, un gioco pericoloso che può far perdere l'equilibrio, ma Lui ha la maturità giusta, si muove intrecciando le sue
passione creando e ricreando brani nuovi, minimalisti, romantici ed
introspettivi, elementi tipici del suo stile.
Dopo una serie di peripezie Paolo,fratello di Luca, riesce a recuperare questi
brano ma non sa come condividerli, cosi chiede consiglio ad Alessandro Galati
che ha curato il Mastering.
Ho chiesto ad Alessandro, amico di Luca e noto pianista, come ha vissuto questo
progetto discografico:
Quando hai conosciuto Luca ?
Lui viveva qui a Firenze come me, io avevo venti anni e mi affacciavo al mondo
della musica con molte “speranze!”.
Luca era un pianista affermato, conosciuto in tutta Italia. Per me era una vera
fortuna ascoltarlo, stare seduto a un metro di distanza mentre suonava nei club.
Era una persona gentile e mi faceva molti complimenti, anche se non è stato mai
il mio insegnante non mancava di darmi ottimi consigli.
Abbiamo insegnato nella stessa scuola, io “forse immeritatamente” avevo una
classe di principianti, lui aveva una classe di allievi più avanzati.
Cosa pensi del suo modo di suonare?
Aveva un dono che avevano solo i grandi, un pianista profondo, la sua musica era
piena della sua personalità , un chiaro scuro continuo, stati d'animo che si
alternano con grande profondità, aveva un linguaggio complesso.
Intendo dire che la sua complessità era nella profondità del gesto,
nell'intensione. Nonostante fosse il suo un linguaggio molto ricco, arrivava a
più persone, questa sua ricchezza permetteva ad ognuno di trovava la sua chiave
di lettura, risultando alla fine di facile ascolto, anche se facile non era!
Nel libretto del album, Paolo racconta che Luca voleva dedicare questo progetto
alla sua infanzia in Mozambico. Quanto è forte la matrice africana nella musica
di Luca?
Era un grande studioso e appassionato di McCoy Tyner, il pianista del famoso
quartetto di Coltrane, che si ispirava molto alle influenze africane,
soprattutto all'uso delle pentatoniche e delle armonie quartali.
Come hai conosciuto Paolo ?
Ho conosciuto Paolo qualche anno fa qui a Firenze, durante un concorso
pianistico di jazz organizzato dal Maestro Marco Vavolo, che è stato insegnante
di Luca, al quale ha voluto dedicato l'evento. Abbiamo molto parlato di Luca e
del periodo che ha vissuto qui a Firenze. Forse è per questo che mi ha scelto
per il Mastering.
Ti eri già cimentato in lavori di Mastering ?
Ho uno studio di registrazione in cui lavoro soprattutto per me e per alcuni
amici, ma no è la mia occupazione principale. Negli anni, lavorando affianco ad
alcuni dei più grandi ingegneri del suono, ho collezionato tante nozioni. In
Italia, a Tokyo, ed a Oslo assieme ad Erik Kongshaug il quale ha creato il
suono della ECM, registrando e valorizzando grandi star del Jazz Mondiale.
( Purtroppo mentre sto scrivendo l'articolo vengo a conoscenza della morte di
Erik. L'enorme quantità di articoli, post e dediche sul web danno l'idea della
sua passione e della grande quantità di lavoro che ci ha lasciato, una triste
perdita per il mondo della musica.)
In che condizioni erano i nastri ?
Paolo mi ha portato quasi quattro ore di registrazioni, alcuni brani si
ripetevano, altri erano originali.
C'erano diversi rumori di sottofondo, interruzioni, frammenti di brani che forse
Luca aveva intenzione di ricucire inseguito. Dopo un lungo ascolto ne ho
ricavato una scaletta , che Paolo ha approvato e sottoscrivendo con piacere.
Non hai avuto dubbi se fosse giusto o no pubblicare questi brani , nonostante
Luca li avesse scartati ?
Non so lui cosa avesse in mente, ma se fossero stati brani suonati in modo
pallido senza personalità ti avrei detto di si, in realtà su quattro ore di
musica ho dovuto scartare un bel po di cose, quello che è rimasto è altrettanto
valido, io ho solo scelto quello che ritenevo più idoneo per questa
pubblicazione.
Visti i risultato, Paolo non avrebbe potuto fare scelta più azzeccata. Grazie
alle sue capacità tecniche, alla sua sensibilità come pianista e amico di Luca,
Alessandro ha saputo ricreare un ambiente caldo e intimo, etereo, dove i brano
fluttuano senza tempo, ricreando quelle pause che solo un interprete sa
riconosce, “un chiaro scuro continuo”.
Ringrazio Paolo Flores, Alessandro Galati, Marco Valente e tutti quelli che
hanno contribuito a questo progetto
Non so se sia stato giusto o meno pubblicare queste registrazioni, so solo che
dopo averle ascoltate non ne posso fare più a meno !!!!
domenica 3 novembre 2019
Sexuality
Il nuovo lavoro di Simone Graziano, in uscita per Auand, si intitola “Sexuality”ed è il terzo capitolo nella storia del quintetto Frontal, che si conferma uno dei progetti più solidi del pianista fiorentino. Assieme a Dan Kinzelman al sax tenore, Gabriele Evangelista al contrabbasso, Stefano Tamborrino alla batteria e il nuovo “acquisto” il chitarrista olandese Reinier Baas, il quintetto genera un album stratificato ed energico. Anche se già dal primo ascolto si rimane piacevolmente incantati, va comunque ascoltato più volte per comprendere la complessità dei vari livelli del tessuto ritmico e l'introspettivo messaggio. La poliritmia è il motore centrale di tutto l'album, ispirato dal libro di Simha Arom African Polyphony and Polyrhythm. «Simha – racconta Graziano – era un cornista che avrebbe dovuto fermarsi quattro giorni nella Repubblica Centrafricana per alcuni concerti in orchestra. Poi si è imbattuto nella musica delle bande pigmee dell’Africa Centrale, e ha finito per restarci quattro anni, trascrivendo tutto il repertorio e tutti le linee strumentali dei vari gruppi pigmei» Graziano decide di utilizzare la poliritmia come mezzo per descrivere la quotidianità. «L’idea di base – aggiunge – è creare livelli ritmici diversi che convivono nello stesso momento. Del resto è quello che avviene costantemente nella vita reale: mentre scrivo sento il suono della moto che passa, dell’ascensore che sale, le voci di passanti per la strada, cui si aggiunge il ticchettio delle dita sulla tastiera del computer. Siamo abituati a selezionare ed eliminare ciò che consideriamo “superfluo”, ma in realtà la natura è intrisa di poliritmia e polifonia. La musica di questo disco cerca di rappresentare la complessità della natura».
Ma l'elemento ritmico non è l'unica musa presa in considerazione, c'è anche la voglia di parlare di un elemento molto discusso nei millenni … «Il titolo – aggiunge il pianista – è ispirato al libro di Stephen Mitchell, “L’amore può durare”. L’assunto iniziale è semplice: degli elementi costitutivi del sesso noi conosciamo solo i fattori ambientali, genetici, biologico-ormonali, generazionali. La scienza non riesce a spiegare fino in fondo da cosa nasca questa forza che lega, nei più svariati modi, tutti gli esseri viventi. È proprio su questo cono d’ombra che da sempre hanno agito i poteri forti: religioni e governanti hanno sempre cercato di esercitare un controllo sulla sessualità, consci di poter così controllare una grande fetta dell’umanità. Oggi si assiste ad un’altra forma di controllo del sesso: le innumerevoli chat sulle diverse piattaforme social. A ciò si aggiunge la pornografia sul web, alla portata di chiunque con una manciata di click». Toccare l'amore “per la Musica” senza filtri e ostacoli.... «”Sexuality” – conclude Simone Graziano – vuole essere una spinta a recuperare il valore del contatto reale e dell’unione tra gli esseri umani. Sia ben chiaro, non per un senso etico, ma come forma di ribellione a un sistema che lucra sul nostro piacere».
Ogni brano dell'album ha una sua peculiarità, ma tutti insieme danno vita ad un unico principio. Graziano & co , forti dalla loro lunga collaborazione, animano il progetto con un ricco caleidoscopio di suoni , impreziositi dai continui balzi dinamici e dai frequenti cambi di tempo. L'importante è saper ascoltare …. e se qualcosa sfugge non sarà un problema riascoltarlo. Produced by Simone Graziano Executive Producer: Marco Valente Recorded at Artesuono, Cavalicco (UD) – Italy Engineer: Stefano Amerio Cover Photo: Caterina Di Perri http://auand.com/ http://www.simonegraziano.it/
martedì 15 ottobre 2019
AUAND's DAD
Diciotto
anni fa , a Bisceglie in Puglia, in piena crisi economica, italiana e
mondiale, Marco Valente pensa bene di fondare un'etichetta
discografica. Nonostante le incerte aspettative, da allora ad oggi la
AUAND record ha prodotto oltre le cento pubblicazioni discografiche,
tra CD, Vinile e anche su supporti
digitali.
Sono
stati coinvolti artisti provenienti da diverse realtà del Jazz
internazionale, soprattutto le giovani promesse. Come il primo
“X-Ray” , debutto discografico del trombonista barese Gianluca
Petrella , oppure “It's Mostly Residual” del Cuong Vu Trio +
Bill Frisell.
Il
“Valente” discografico non sceglie di dedicarsi ad un unico stile
di musica, come invece prediligono in molti, ma di ricercarne altri ,
sempre nuovi. Così, oggi, la AUAND offre un esteso panorama sonoro,
molte novità e indicazioni su cosa si può ascoltare sul Jazz del
nuovo millenio .
Oltre
all'alta qualità degli artisti e della musica originale che viene
pubblicata, il secondo punto forte dell'etichetta è l'enorme lavoro
di promozione. Sembra impossibile che un uomo da solo sia riuscito a
tessere una tela così estesa di contatti, forse grazie al suo
nomadismo.
Sicuro
è che Marco non si è interessalo solo dell'aspetto economico.
Quello che gli interessa di più è dare e scambiare informazione ,
affinché tutti ne traggano profitto. Così negli anni ha promosso
diverse iniziative collettive che oggi sono di grande sostegno, per i
musicisti e le etichette, giornalisti/fotografi e festival, ma
soprattutto per i fruitori.
Il
resto è storia, ma ve lo lascio raccontare da lui …...
Chi
era Marco Valente prima di diventare un discografico?
Era
sicuramente un grande appassionato di jazz che acquistava tanti CD in
maniera quasi compulsiva e che a vent'anni, per capire meglio questa
musica dal di dentro, ha deciso di studiare contrabbasso riuscendo,
pochi anni dopo, anche a calcare qualche palco.
Non
dire il calciatore! … qual'era il tuo sogno da bambino?
Il
calciatore. L'ho detto. E a cinquant'anni vado ancora a giocare ogni
domenica. Finché reggono le gambe.
Hai
suonato in qualche gruppo?
Come
dicevo, tra il 1995 e i primi anni 2000 sono riuscito a togliermi
qualche soddisfazione. Ho avuto modo di suonare (o forse sarebbe
meglio dire che ho provato a star dietro) con Mirko Signorile,
Gaetano Partipilo, Gianluca Petrella, Pino Minafra, Vittorino Curci,
Felice Mezzina, addirittura Antonello Salis in un paio di occasioni.
Hai
mai inciso qualcosa di tuo?
Solo
un paio di brani, mai pubblicati.
Quali
erano i tuoi dischi preferiti?
Ce
ne sono alcuni che sono ancora tra i miei preferiti: 80/81 di Pat
Metheny, il quartetto americano di Jarrett, il primo disco omonimo di
Michael Brecker, i Bass Desires, gli Steps e gli Steps Ahead, alcuni
dischi di Abercrombie, il periodo Elektra di Frisell e i Columbia di
Tim Berne, tutto quello che usciva in quegli anni di JMT. Ascoltavo
anche tanto jazz italiano: Rava innanzitutto, Pieranunzi, Gatto,
Giovanni Tommaso, Trovesi, Minafra, Ottaviano, Battaglia, Fresu.
Qual'è
la tua etichetta preferita?
JMT
sicuramente. Impulse tra le storiche. Un determinato periodo ECM che
va tra gli anni '70 e la fine degli anni '80.
Qual'è
stata la tua prima esperienza da discografico?
Una
compilation di jazz italiano stampata nel 2000, un anno prima di
fondare Auand. E' stato un po' un banco di prova, un esame
propedeutico.
Quando
hai creato AUAND RECORDS eri da solo?
Solissimo
e purtroppo lo sono ancora. Ho sempre sognato che un giorno venisse a
citofonare un ragazzino con la passione per il jazz a chiedermi di
dare una mano.
Quali
sono i tuoi parametri per scegliere o rifiutare un disco?
Direi
che è tutto spiegato nel pay-off di Auand: Energy, Risk, Conviction
and the Unexpected: l'energia, il rischio la convinzione e la
sorpresa. Sono questi gli elementi che cerco, sia come ascoltatore
sia come produttore. Certamente non voglio sentirmi rassicurato.
È
più importante l'immagine del suono o il suono dell'immagine?
Con
questa hai vinto il premio “Marzullo del Jazz 2019”. Produrre un
disco oggi vuol dire fare attenzione a così tanti particolari che mi
perderei facilmente nel risponderti. Tutti gli elementi hanno la loro
importanza.
Come
è nata la scelta del nome AUAND?
Buttando
giù una lista di quasi cento nomi con il grafico che si è occupato
della creazione del logo e dell'immagine e che ancora lavora con me.
Poi abbiamo ristretto ad una ventina, poi sempre meno anche grazie al
confronto con David Binney e un professore di italianistica della
NYU. Alla fine abbiamo optato per AUAND perché suonava bene anche
per gli anglofoni.
Con
la Nazionale Italiana Jazzisti hai unito due tue grandi passioni,
qual'è il tuo ruolo all'interno?
Sono
stato il fondatore, nel 2013, e primo presidente quando abbiamo
costituito la Onlus. Ora gioco solamente, quando riesco a conciliare
gli impegni. Riusciamo a raccogliere fondi per beneficenza
divertendoci e questo è importante.
Cos'è
ADEIDJ e il patto di intesa?
E'
l'acronimo di Associazione delle Etichette Indipendenti di Jazz ed è
stata da me fondata all'inizio del 2018 quindi stiamo terminando il
nostro secondo anno di vita. ADEIDJ fa parte della Federazione “Il
Jazz Italiano” che vede partecipare altre associazione legate al
nostro mondo: quella dei musicisti, dei festival, dei club, degli
agenti, dei fotografi e di chi si occupa di formazione. E' ancora
presto per tirare le somme ma già il fatto di essere tutti insieme
attorno ad un tavolo fa crescere tutto il sistema e ci porta a
pensare a strategie per il futuro di tutta la filiera. C'è
sicuramente tantissimo da fare.
Sono necessarie tutte queste sigle e procedure istituzionali , non c'è il pericolo che si perda un po lo
“spirito imprevedibile del Jazz”?
Siamo
stati cani sciolti per tanti anni e ora lo stato delle cose ci ha
portato ad unirci e discutere del futuro di questa musica in Italia.
Alla maggior parte dei concerti il pubblico è over 50 e manca un
pubblico giovanissimo. Questo è uno dei principali problemi di cui
stiamo discutendo. Sarà necessario ricreare un pubblico da zero se
non vogliamo vedere questa musica sparire dai cartelloni. In più ci
sono tantissimi problemi strettamente burocratici da risolvere: il
sistema contributivo e pensionistico dei musicisti, l'inquadramento
stesso dei musicisti nel mondo del lavoro, l'inquadramento anche dei
club che investono in operazioni culturali, l'IVA sui dischi, la
mancata retribuzione collegata allo streaming del prodotto
discografico, e tanto altro.
Dopo
Bisceglie, New York, Roma e recentemente Torino, dove è diretta la
tua curiosità?
Ovunque!
In questo momento il mio pensiero è di sondare paesi diversi facendo
delle medio/brevi residenze. Ma Bisceglie e la Puglia resteranno
sempre e comunque il punto fermo, la base dove tornare. Qui si vive
troppo bene. Giusto per farti capire, sono andato a fare un bagno al
mare lo scorso 10 Ottobre, due giorni dopo ho comprato un'intera
cassetta di cachi a 3 Euro, mangio pesce spesso senza svenarmi (a
Torino un giorno ho deciso di prendere del pesce spada e ho speso 35
euro per due persone, dopo di ché ho mangiato carne per il resto
dell'anno). Credo siano benefit inarrivabili in città metropolitane
e a 50 anni quasi suonati tengo molto alla qualità della vita. http://auand.com http://family.auand.com http://www.facebook.com/auandfamily http://www.youtube.com/auand http://www.instagram.com/auand http://www.twitter.com/auandrecords http://www.jazzos.com
giovedì 19 settembre 2019
Genetica del suono
Personalmente
ho iniziato ad interessarmi anche all'etnomusicologia agli inizi
degli anni '90. All'epoca studiavo chitarra classica e il mio Maestro
mi fece studiare i Mikorokosmos di Bela Bartok. Non sapevo chi fosse
così presi il primo libro che trovai su di Lui. “scritti sulla
musica popolare” è solo uno dei tanti testi realizzati dal grande
compositore ungherese. Leggendolo rimango sorpreso già dalle prime
righe della prefazione di Zoltan Kodaly:
"Nel
1912 ci recammo con Bartok ad un convegno di musicisti a Roma, nelle
due settimane di soggiorno nella città eterna,facemmo anche alcuni
giri nei dintorni. Una volta Bartok ritornò da Albano con un canto
popolare che aveva ascoltato da lontano , era una melodia antica, del
tutto particolare e ricordava le melodie romene. Cercammo anche altre
raccolte italiane, ma nulla che non portasse tracce visibili
dell'influenza della più recente musica classica. Sebbene la melodia
di Albano difficilmente potesse essere l'unica e anche se la musica
colta avesse assorbito da secoli la musica popolare, dovevano pur
esserci delle tracce.”
Si
da il caso che io sia proprio di Albano. All'epoca studiavo e
ascoltavo molta musica ma non conoscevo canzoni popolari o
tradizionali di Albano così antiche. Forse qualche stornello o
canzone folcloristica che non aveva più di 100 anni.
I
rapporti con la Romania risalgono a quando Traiano invase la Dacia.
Albano e gli altri paesi dei Castelli Romani erano usati dall'impero
come legioni dove addestrare i soldati provenienti dalle terre
conquistate. Dopo duemila anni, riscontrare similitudini con altre
melodie ritrovate in Romania da Bartok agli iniziato nel 1905 è
incredibile, ma non impossibile.
Durante
il 1900 l'etnomusicologia si è evoluta velocemente, prendendo spunto
e ispirazione da altre forme di ricerca ha elaborato diversi metodi
di comparazione fino ad utilizzare le ultime scoperte nella ricerca
genetica. Ha eretto così ponti immaginari che nel corso dei secoli
hanno permesso alla melodie di fare il giro del mondo.
Il
discorso sulla “Genetica del suono” si insinua in molti temi
della ricerca, la storia dell'umanità è ricca di aneddoti sulla
sua creazione e sul suo utilizzo. Da Pitagora ai giorni nostri la
filosofia e la scienza hanno dimostrato molto interesse
sull'argomento.
In
termini filosofici, Herbert Spencer diceva che tutto nasce da
un’esigenza emotiva, psicologica, perché le parole non sarebbero
riuscite a esprimere con la stessa efficacia della musica, mentre
Darwin
affermava che la
capacità di creare un linguaggio musicale non sia prerogativa
dell’uomo. Basta osservare il mondo animale per rendersi conto di
come sia insita in tutti gli esseri viventi e il più delle volte
legata funzionalmente alla competizione sessuale. Darwin,
in pratica, afferma che la musica non
è, come per Spencer, un’elaborazione culturale tarda, ma una
pratica molto più remota, radicata e distribuita nel mondo vivente.
Per
gli scienziati la musica, è iscritta nel nostro DNA , dove il
suono è all’origine delle cose. Secondo la meccanica quantistica,
la materia non è mai inerte, ma è costantemente in uno stato di
moto, di vibrazione continua. Il fisico austriaco Fritjof
Capra diceva:
“Ciascuna particella canta perennemente la sua canzone“. Tutto
ciò che compone la realtà, vibra.
Anche oggetti inanimati e densi come le pietre, un esempio eclatante
è quello dello scultore Pinuccio Sciola, che ci appaiono materia
solida, di fatto, sono forme di energia che vibrano, seppure a
frequenze molto lente. Come diceva anche Pitagora Tutto
nell’Universo
è energia in vibrazione e genera un suono.
Grazie
alla genetica, che ha rivoluzionato il ventunesimo secolo, ad oggi
non c'è studio storico antropologico che non si avvalga delle
moderne scoperte sul DNA. Alcune intuizione, prive di dati oggettivi,
ricavate dagli studi di storia, antropologia, linguistica,
etnomusicologia etc, sono state confermate o contraddette, generando
nuove teorie. L'etnomusicologo Victor Grauer per il suo libro “Musica
dal profondo” ha arricchito la sua ricerca utilizzando i recenti
risultati ottenuti dagli studi genetici. Sembra che le attuali
popolazioni di pigmei e boscimani
,
entrambe le popolazioni condividono un linguaggio musicale
distintivo, sono dirette discendenti di quella piccola popolazione di
esseri umani che tra 70.000 e 100.000 anni fa iniziò a colonizzare i
territori fuori del continente africano, un’impresa di cui ora
vediamo il risultato sotto forma di presenza umana in ogni angolo del
mondo. Tutti gli esseri umani che oggi vivono al di fuori dell’Africa
hanno come antenato quel piccolo gruppo di africani che si mise in
cammino alla conquista del mondo. A sua volta quindi questo
linguaggio musicale, probabilment
e lo stesso cantato dai nostri
antenati poco prima dell’uscita dell’Africa, potrebbe essere il
retaggio culturale di una popolazione ancestrale dalla quale derivano
tutti i gruppi etnici del pianeta.
I
ricercatori hanno tracciato collegamenti tra la morfologia, i geni e
la geografia. Finanziati dal Consiglio europeo della ricerca, hanno
reso note le nuove scoperte sulle prime migrazioni umane dall’Africa
effettuate analizzando il sistema di cavità dell’orecchio interno.
Essi hanno scoperto che le differenze nella forma del labirinto osseo
aumentano all’aumentare della distanza dall’Africa. Inoltre hanno
dimostrato che, oltre il ruolo funzionale svolto dal labirinto osseo
per l’equilibrio e l’udito, l’evoluzione ha conservato una
sorprendente quantità di variazioni all’interno dell’orecchio. È
una scoperta di Ron Pinhasi, archeologo dell’Università di
Dublino, secondo cui l’osso
petroso,
contenente il minuscolo orecchio interno, contiene 100 volte più DNA
di altri resti umani antichi, offrendo un’enorme quantità di
materiale genetico per le analisi. L'osso temporale contiene al suo
interno gli ossicini dell'udito, posti in una cavità detta cavo del
timpano.
Visto
che l'orecchio è al centro degli odierni studi di genetica non sono
mancati i musicisti che hanno approfittato di queste nuove scoperte
per intraprendere nuovi percorsi compositivi.
Il
05.04.2019 È
uscito “DNA” (Ala Bianca/Warner Music), il terzo lavoro dei
Deproducers, un progetto sinestetico in cui scienza
e musica uniscono le forze in nome della conoscenza e della
divulgazione del sapere.”DNA”
è stato realizzato in collaborazione con AIRC,
Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro e con Telmo
Pievani, filosofo, storico della biologia ed esperto di teoria
dell’evoluzione.
Un
altro progetto, sinestetico è quello di Paolo Soffientini,
scienziato/batterista, ricercatore di proteomica all'Ifom-Istituto
Firc di oncologia molecolare di Milano, il quale vuole dimostrare che
nel nostro DNA si nasconde uno spartito musicale. Anzi 23 mila, tanti
quante sono le differenti proteine che abitano in ogni cellula. In
pratica vengono incrociati l'alfabeto della musica con quello del
codice della vita, dove a ciascuna lettera del genoma viene abbinata
una nota, in modo tale che ogni gene, e quindi ogni proteina, possa
diventare un suono, così si possono ottiene un'infinità di brani.
Più
recente, il 5 maggio, a Pisa si è esibita la Dinamitri Open Combo,
che ha presentato “Mappe per l'Eden”, un progetto che rielabora
in musica il percorso dell'evoluzione musicale dalle origini
dell'uomo ai nostri giorni. Un progetto di ricerca che unisce due
gruppi tra i più attivi del Jazz italiano, Dinamitri Jazz Folklore e
Open Combo.
"Personalmente
credo che ci siamo fatti da tempo un'idea di come la musica, per le
sue componenti emotive e per la sua inafferrabilità, rappresenti lo
spirito che ci tiene in vita. Solamente non abbiamo ancora trovato le
giusta parole per descriverla."
Ogni volta che termino di leggere un libro ho una strana sensazione di malinconia, come se si è giunti al termine di un'amicizia, quando qualcuno ci lasci e lo vediamo per l'ultima volta. Spesso mi fermo qualche pagina prima e attendo giorni o settimana prima di leggere la fine. Da onnivoro di Musica, più nello specifico del “SUONO”, ascoltando un album dovrei avere lo stesso coinvolgimento di quando leggo un libro, invece no. La MUSICA coinvolge il nostro corpo fisico e astratto, la nostra parte razionale e l'inconscio, anche se lieve e delicata in verità provoca un enorme rivoluzione nel nostro “ESSERE”, essendo corpi vibranti che risuonano anche per simpatia l'emissione sonora ci domina. Leggendo un libro veniamo avvolti dal SILENZIO, nel quale siamo liberi di vibrare come vogliamo, consciamente e inconsciamente, liberi di controllare il nostro coinvolgimento. Leggere “ MUSICA INDIANA” di Patrizia Saterini è stato un percorso emozionale, sicuramente grazie alla condivisione dell'esperienza diretta dell'autrice, che per le interviste contenute nel libro. Dalle prime pagine non ho avuto la consueta sensazione malinconica, forse perché consapevole che quest'opera farà parte di quei libri inseparabili dai quali ricavo continua ispirazione. Sono almeno 25 anni che ascolto la Musica Classica Indiana e che ne ricerco informazioni. Ci sono poche pubblicazioni in italiano e nel tradurre quelle in inglese se ne perde alcune sfumature, un po come nel gioco del telefono. Finalmente ho trovato un libro valido e necessari per soddisfare la mia sete di conoscenza. Pagina dopo pagina si entra in contatto con il vissuto di un'artista italiana che ha allargato i suoi orizzonti guardando ad Oriente. Nonostante l'apparente lontananza culturale Saterini riesce a far emergere elementi comuni che in seguito, almeno in Occidente, anno preso strade diverse. Io porto sempre l'esempio di Pitagora e Platone, il primo ha indicato le basi di un flusso “melodico” dove gli elementi mutando casualmente dando vita a naturali e infiniti intrecci armonici, mentre il secondo in contrapposizione ha monumentato le basi di “un'armonia universale” dalla quale si possono si estrarre molteplici combinazioni melodiche, ma non infinite perché private della aleatoria casualità. In sintesi Pitagora rappresenta l'Oriente e Platone l'Occidente. In Oriente, non solo in India, per migliaia di anni si è approfondito l'aspetto melodico, dove il canto è alla base dello sviluppo interpretativo. Il ritmo la melodia e “un'armonia armonica” risiedono prima nel canto, poi possono essere sviluppati o arricchiti con gli strumenti musicali. In Occidente, anche se non esistono testi che ne convalidano la teoria ma se ne più dedurre solo attraverso le tradizioni popolari, fino ai Canti Gregoriani più o meno lo sviluppo è stato lo stesso. La frattura avviene intorno al 1700 , dove si è imposta la necessità di istituire trattati per migliorare l'approccio armonico, l'intonazione e la fruizione. Con il temperamento equabile e il diapason fisso a 440 hz il sistema occidentale si è privato di un'enorme varietà di suoni e con essi anche il loro patrimonio. Inoltre in India, e non solo, la Musica Classica è anche quella tradizionale, mentre in occidente viene imposta un'ingiustificata differenza, dalla quale ne derivano i termini di fruizione. Con questo non voglio giudicare chi è meglio o peggio, ma semplicemente constatare che le scelte hanno generato percorsi diversi. I grandi compositori come Mozart e Beethoven hanno scritto pagine meravigliose e dal grande impatto emozionale. Di fatto, nonostante la sua giovane età, la Musica Classica si è un po esaurita, mentre quella Indiana, della quale si conoscono testi millenari, continua a rigenerarsi come il susseguirsi degli eventi naturali, custodendo la sua brillante vibrazione. Altri aspetti molto importati che emergono dal libro sono l'importanza della tradizione orale, l'arte come insieme di generi, ma soprattutto l'aspetto emozionale.
La Prima cosa che ti voglio dire è grazie, questo libro è completo, nonostante si parla di una tradizione orale , sei riuscita a trascrivere in maniera semplice ed efficace tutti gli elementi necessari alla fruizione della Musica Indiana. Sarà molto utile anche a chi non ha intenzione di praticarla ma semplicemente ricavarne beneficio dal suo ascolto. - Ho voluto scrivere un libro che fosse utile sia per chi è su un percorso musicale classico eurocolto e vuole allargare i propri orizzonti sonori, per chi proviene da altri generi e vuole affacciarsi ad una diversa cultura musicale, per chi non è un musicista ma vorrebbe conoscere i presupposti del pensiero musicale indiano e per chi vuole intraprendere lo studio della musica classica indiana e necessita di uno strumento teorico efficace.
All'inizio del libro viene fatta un'introduzione fonetica su come pronunciare correttamente le parole in Sanscrito un po come si fa con i dizionari di lingue, ed è risaputo che la musica viene considerata una forma linguistica universale. Ma nella Musica Indiana la parola assume un aspetto più profondo, ci vuoi spiegare come ? - L’India ha da sempre tramandato la conoscenza del suono quale portatore di energia trasformativa. I veda, gli antichi testi sacri, sono strutturati in modo da essere veicolati e tramandati attraverso il canto e si compongono di versi la cui corretta pronuncia, intonazione e metrica sono tramandati oralmente da millenni. I suoni della lingua sanscrita sono considerati essere un modo per evocare e connettersi ad una dimensione divina. Ecco che allora la corretta pronuncia diventa essenziale per potervi accedere. Il termine dhrupad, forse lo stile musicale classico più antico, proviene da dhruva (fisso) + pada (verso, testo). Il senso è che il testo, l’insieme delle parole che compongono i versi, è il perno fondamentale. Le parole vengono anche frammentate in quelle che vengono definite “sillabe sacre”. Sono estremamente potenti. E’ un tipo di conoscenza preziosamente custodita e accuratamente tramandata da maestro ad allievo, o più propriamente, da maestro a discepolo dato che si tratta di un sentiero non solo musicale ma anche evolutivo.
Secondo la cultura Occidentale non è indispensabile che un ballerino conosca i principi del fare musica o che uno scrittore comprenda il linguaggio corporeo di un ballerino. Ancora più assurdo, dico io, che un pianista , o altro strumento, sappia cantare . In verità nelle musica tradizionale di molti paesi si apprende prima il canto e poi eventualmente si prosegue con uno strumento . Anche Dexter Gordon, noto sassofonista jazz, diceva che per suonare un buon assolo bisogna prima saper cantare la melodia dalla canzone . Il trattato risalente tra il 4 secolo AC e il 4 secolo DC al quale fanno riferimento tutti i musicisti indiani si chiama Natya Shastra. Eppure non è un trattato musicale bensì di Arte Scenica. Questo perché nella tradizione indiana l’arte è un insieme di musica, danza e teatro. Non è pensabile nella formazione di un cantante che egli non sappia danzare e nemmeno per un danzatore che non impari a cantare, ne’ che uno strumentista non sappia cantare. Il momento musicale avviene prima all’interno del corpo e quindi viene esternato. Che sia una frase melodica suonata o cantata, si forma all’interno, si muove fluidamente e quindi si concretizza nella voce o nello strumento musicale. E’ quindi fondamentale essere consapevoli che quello stesso movimento musicale è sia interno che esterno e questa consapevolezza, che è esperienziale, lo rende carico di un’energia che viene percepita chiaramente dal corpo di chi ascolta. E come si accede a questa esperienza? Attraverso il consapevole movimento del corpo, la danza. Allo stesso modo lo strumentista crea la sua frase melodica all’interno prima di esternarla, ed è la voce il primo strumento musicale! Prima si impara a cantare, e quindi si può trasferire la propria conoscenza allo strumento. E’ così che tutto quello che si suona diventa vivo perché segue un percorso naturale. Provengo dalla tradizione classica occidentale, mi sono diplomata in flauto presso lo stesso Conservatorio dove, molti anni dopo, mi sono ritrovata ad insegnare canto classico indiano. Ricordo che quando ero una studentessa di flauto provavo il disagio di sentire la separazione dallo strumento, la sensazione di rigidità nel corpo, la dipendenza dallo spartito….
Come viene concepita l'arte in India e perché tante persone, anche professionisti, ricercano in essa un completamento? Nella musica occidentale l’evoluzione è stata di tipo verticale. Abbiamo assistito alla grande creazione della “cattedrale armonica”: i suoni sempre associati ad un accordo. L’evoluzione progressiva è arrivata alle grandi sinfonie e quindi c’è stato un momento di stordimento. Cosa si poteva fare di più? C’è chi ha capito che bisognava fare il percorso inverso: ricercare il suono scollegato dalla solida impalcatura costruita attorno. E quindi la ricerca, la sperimentazione. Si è cercato di fare qualcosa di innovativo ritornando alle radici. Il punto è proprio il fare. Nella musica indiana il musicista non fa: è. La musica avviene tramite lui. E’ il mezzo di contatto tra dimensioni diverse. Il movimento non è quindi egocentrico ma egocentrifugo. Penso che molti musicisti occidentali si volgano all’arte dell’India perché intuiscono l’enormità del pensiero filosofico che sta alla base del fare musica e che nel mondo occidentale, forse, è stato smarrito. Secondo me quando si parla di monodia come di singoli suoni è sbagliato, perché ogni suono è composto da una serie di armonici ed essi cambiano assecondo della sua qualità, in pratica si genera “un'armonia armonica”. In questo ho ritrovato riscontro nella musica indiana, la voce ha un trasporto più intenso, paragonato ad altri generi , il canto indiano appare tridimensionale : Oltre alla qualità tecnica e il contenuto letterario c'è anche una profondità molto intensa, forse spirituale, ci puoi descrivere come viene considerato ed interpretato il suono del canto nella tradizione artistica indiana. Il suono nel suo aspetto più mistico viene definito “nada”. E’ di quello che ogni musicista è alla costante ricerca: quel suono che, una volta raggiunto, porta alla trascendenza. Il cantante sa che attraverso la corretta emissione ed intonazione può avere accesso a quella dimensione. Ecco quindi l’enfasi in una tecnica vocale che lo permetta: quella della voce naturale, senza escamotage quali il falsetto, il vibrato e altre modalità che sembrano abbellire esteticamente il suono ma che, in realtà lo allontanano dalla sua enorme potenzialità. La musica indiana viene definita monodica, proprio perché utilizza un suono alla volta ma non dimentichiamo la strettissima relazione con la tonica, il SA, che resta costantemente alla base della struttura musicale. Il termina SA significa “ciò da cui hanno vita gli altri suoni”. Ogni cantante, dal principiante al professionista, pratica giornalmente il SA o, potremmo più correttamente dire, si immerge a lungo nel SA, prima di intonare altri suoni. Questa pratica rende la voce capace di emettere suoni corposi e pieni di armonici. La scala musicale indiana non è suddivisa come quella occidentale in 12 semitoni. C’è una microtonalità che nel tempo è stata fissata dai trattati in 22 micrononi all’interno dell’ottava sebbene in alcuni trattati si menzioni il fatto che sono, in realtà, infiniti e dipendono unicamente dalla possibilità di essere percepiti all’orecchio La loro intonazione dipende dal raga che si vuole eseguire. Per capirci e volendo utilizzare una terminologia occidentale, il re bemolle di un raga può non essere lo stesso di quello di un altro raga. Le altezze dei suoni sono mobili a seconda dell’entità melodica che evochiamo. Parlo di entità musicale quale sinonimo di Raga per indicare come questo non sia solo una scala musicale ma, piuttosto, un essere con le sue caratteristiche, maschio o femmina, il suo temperamento e, soprattutto, il dono che è in grado di elargire se correttamente evocato. Possiamo dire che l'utilizzo e il rapporto con gli strumenti musicali in India è paragonabile ad una seconda voce? Certamente. Lo strumento musicale è un’estensione corporea che permette, come la voce, di convogliare i suoni. Che sia uno strumento a corde, a fiato o a percussione, questo si connette ad una dimensione musicale che, come detto prima, si sviluppa innanzitutto all’interno del corpo. In India gli strumenti musicali vengono considerati sacri e quindi è normale vedere il musicista che, prima di suonare e alla fine di ogni esecuzione, tocca lo strumento con le mani e se le porta sulla fronte o sul cuore in segno di devozione e riconoscimento.
Qual'è la funzione della Tampura ? Il tampura funge da bordone. Il musicista è costantemente in stretto rapporto con la nota SA. Questo gli permette di mantenere l’intonazione. Usualmente il tampura viene intonato sulla nota SA e sulla quinta, il PA. Se il raga non prevede la presenza del PA, al suo posto di intona il MA. Il tampura è uno strumento davvero magnetico. La sua voce risuona alla base di ogni evento musicale. Gli armonici delle sue note si miscelano creando un tappeto sonoro circolare sul quale poggia il cantante o lo strumentista. La Musica Indiana e suddivisa in due grandi scuole, ci puoi spiegare quali sono le loro differenze ? La musica indostana, del nord India, e la musica carnatica, del sud, sono i due grandi sistemi. Sebbene entrambi si basino sugli stessi trattati musicali e sullo stesso pensiero filosofico riguardo la musica, hanno differenze dovute principalmente all’interpretazione e alla modalità di utilizzo di quanto tramandato dalla tradizione. I “carnatici” rivendicano una maggior aderenza alla tradizione adducendo che la musica indostana sia stata pesantemente influenzata dalle invasioni musulmane e dalla loro cultura. Gli “indostani”, d’altro canto, vantano l’apertura verso il mondo occidentale e la condivisione reciprocamente proficua con altri sistemi musicali. Certamente il concetto di raga è quello che sta alla base di entrambi anche se la catalogazione è diversa e a volte alcuni raga del sud hanno nomi diversi in quelli del nord; il concetto di alamkara, le ornamentazioni, è diverso: è evidente quando si ascoltano le oscillazioni sulle note che nella musica carnatica sono molto più estese; la ritmica nella musica indostana è meno prevalente che non in quella carnatica ma entrambi i sistemi sono fortemente connessi con la danza. La mia opinione è che entrambi i sistemi abbiano le stesse profonde radici profondamente nel fertile terreno musicale di una terra che ha concepito l’idea di musica quale mezzo di salvezza. Secondo una prospettiva anche orientale non si può parlare di musica senza menzionare anche della danza, un'altra delle tue “passioni”, quanta musica c'è o ci deve essere nel corpo che danza? Moltissimo. Molti anni sono stata forzata a diventare una ballerina. Ero lontanissima da quell’idea. Venendo dalla musica occidentale non riuscivo a concepire perché avrei dovuto danzare per poter capire come cantare. Ebbene, benedico la persona che mi ha “costretta” ad accogliere il canto nel corpo danzante e la danza del corpo cantante. Alla fine ho sperimentato che non sono due cose diverse: sono due angolazioni della stessa immagine. E l’esperienza ha profondamente cambiato la mia vita e il mio approccio alla musica. In questo momento storico sempre più globalizzato dove tutto è al sapori “Di” non si sa bene cosa , si stanno perdendo molte tradizioni. Anche l'aspetto digitale non aiuta, esistono tutorial per ogni cosa, persino per apprendere la Musica Indiana. Eppure la tradizione indiana sembra sempre più solida. Possiamo dire che uno dei suoi pilastri è la tradizione orale ? Non è possibile percepire la microtonalità da un tutorial su youtube, ne’ l’anima di un raga, ne’ fare un serio lavoro sulla propria voce: superficialmente si può apprendere molto, la linea melodica, magari anche la ritmica o le nozioni teoriche, ma è come quando tracciamo uno schizzo della strada per arrivare in un particolare luogo per una persona che non vi è mai stata: possiamo indicargli di “girare a destra, al secondo semaforo girare a sinistra, andare dritto per due rotatorie. Ma non saprà quali e quanti alberi costeggiano la strada, il colore del cielo sopra le case, il suono delle cicale accanto al fossato o le lucciole nella stradina di campagna. C’è solo l’esperienza personale e questa può essere efficacemente conseguita solo grazie ad una guida. Da sempre la musica indiana è stata tramandata attraverso un paziente lavoro di trasmissione orale, da maestro ad allievo. Non voglio anticipare troppo, però prima di salutarci vorrei chiederti quanto è importante il tempo secondo la filosofia indiana? Nella filosofia indiana il tempo è circolare. Infatti non si dice “il ritmo” ma “il ciclo ritmico”. In una visione secondo la quale il creato viene in essere da un suono e viene estinto da una danza, la ciclicità ritmica assume un significato molto profondo. E’ come il pulsare dell’esistenza che emerge e si riassorbe. Il ciclo ritmico è come una pergamena che viene srotolata e quindi nuovamente riavvolta su se stessa raccontando la storia del mondo.