A
tre anni di distanza dal precedente Flow,
Home,
edito sempre per la
AUAND RECORDS, oggi
25 gennaio Francesco
Diodati
pubblica Never
The Same.
Sceglie la stessa formazione del precedente album, gli Yellow
Squeeds.
Enrico Zanisi al pianoforte
& synth, Francesco
Lento alla tromba,Glauco
Benedetti al basso
tuba & trombone a valvole, ed Enrico
Morello batteria.
L'opera
è composta di 9 brani. Ognuno è simile e diverso dall'altro. Simile
perché tutti i brani sembrano delle piccole suite, racconti musicali
che si muovono su più dinamiche, continui e complessi cambi di
tempo, ma anche diversi nell'intenzione, a volte ariosi, altre
angolari.
Già
da un primo ascolto si percepisce quell'intenzione quasi
tridimensionale che Diodati ha voglia di creare, come in un moderno
dialogo armolodico:
«la
sovrapposizione di diversi strati sonori, di linee che si intrecciano
e che, pur mantenendo una propria indipendenza, diventano
imprescindibili le une dalle altre. Questo modo di costruire la
musica fa sì, per esempio, che lo stesso brano possa essere
percepito in riferimento a un andamento ritmico diverso per ognuno. È
un po’ come guardare lo stesso oggetto tridimensionale da diversi
punti di vista, girandolo tra le mani o sospeso nello spazio».
Tutto
questo è stato possibile grazie ai coprotagonisti, ai quali non
viene chiesto di interpretare i brani, ma di vestirli:
«Sono
tutti molto dinamici e nel corso del tempo cercano nuovi suoni, nuovi
approcci. Zanisi sul primo disco suonava il piano, qui suona piano,
Fender Rhodes, synth modulare e bass synth. A Morello ho dato una
montagna di gong birmani, accumulati negli anni durante i miei viaggi
e concerti in Myanmar, e li abbiamo suonati insieme nell’intro di
“Simple Lights”. Glauco Benedetti si è rivelato sorprendente
anche con il trombone a pistoni, tanto che ho riscritto appositamente
alcune parti per inserirlo. Francesco Lento tira fuori suoni sempre
diversi dalla tromba portando all’estremo le possibilità
timbriche, oltre a dilettarsi con bottiglie di vetro! Sa essere molto
lirico oppure diventare più angolare e aspro. Con lui spesso
dialoghiamo in modo serrato, una pratica che si è fatta sempre più
intensa nel corso degli anni. Sono tutti musicisti formidabili.
Ho scelto loro perché sono capaci di rompere le barriere, andare
oltre i limiti del già sentito».
Emerge
un caleidoscopio di colori, suoni scolpiti nella materia dei ricordi.
L'ambiente creativo e sinestetico non sono estranei al Leader:
«La
copertina è frutto di un’opera di Sara Bernabucci, artista con cui
collaboro da due anni nella ricerca di un incontro fra musica e arti
visive, e di Alberto Timossi. È la stratificazione di due arti
diverse, la scultura e la pittura, nate da due menti diverse alle
quali si è aggiunto il mio punto di vista con la macchina
fotografica, rendendo l’opera irriconoscibile. È quello che
intendevo: vedere lo stesso oggetto da punti diversi, e farlo non a
priori, in modo astratto, ma con la prassi, la passione intuitiva di
chi vive di arte».
Un'opera
completa, che fa sorridere e meravigliare, dove la musica diventa un
gioco di ruoli. Rompere e ricreare nuove regole. Creare continue
mutazioni e manipolazioni, dove i crudi suoni dell'inconscio emergono
dal caos della ragione ...
Cronache della Shoah
Filastrocche della nera luce
di Giuseppe Manfridi
con Manuele Morgese
Musiche eseguite dal vivo da
Fabrizio Bosso tromba
Julian Oliver Mazzariello pianoforte
Regia Livio Galassi
Martedì 29 gennaio 2019 alle ore 20.00, “Cronache della Shoah. Filastrocche della nera luce” di Giuseppe Manfridi, in scena al Piccolo Eliseo di Roma con la voce recitante di Manuele Morgese, le musiche dal vivo di Fabrizio Bosso e Julian Oliver Mazzariello, e la regia di Livio Galassi.
Ha debuttato in forma di breve lettura in prima europea ad Aushwitz il 20 gennaio 2019 davanti ad una delegazione del MIUR - Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – e agli studenti di alcuni Istituti scolastici italiani che, come tutti gli anni, visita l’immenso lager dove persero la vita oltre un milione di persone.
Approda oggi al Teatro Eliseo “Shoah”, un monologo, una esecuzione polifonica, un ‘canto recitato’ a più voci scritto da Giuseppe Manfridi e ispirato a “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Manuele Morgese presterà la voce ai diversi personaggi, testimoni e narratori dei terribili e drammatici episodi legati alla Shoah, fondendosi, attraverso le filastrocche di nera luce, alla musica della tromba di Fabrizio Bosso e del pianoforte di Julian Oliver Mazzariello nel disegno registico di Livio Galassi.
Una coproduzione: Teatrozeta Dell’aquila -Teatro Nazionale Della Toscana Con il sostegno del Miur, Ministero dell’Istruzione – dir. Gen. dello studente
Le note di regia di Livio Galassi
Tutto è stato detto, e tutto resta ancora da dire: esaurite le più atroci parole a descrivere l’orrore del più abominevole crimine che la storia ricordi, non esistono parole per comprenderne il recondito perché. Basta il cupo odio che intatto ha attraversato i secoli fino a noi, fomentato da una religione che si è impossessata del dio di Israele per reinventarlo a suo pro, perseguitando chi non si piegava alle sue manomissioni e voleva conservare integre le proprie antiche credenze, i propri miti, la propria appartenenza, la propria – pericolosa – “diversità”? Forse un fondo di nera frustrazione ha irritato e ingelosito il confronto con un popolo che sempre si è nobilmente rialzato dai reiterati soprusi, aggrappandosi fiero alla sua antica e mai rinnegata cultura. Mi chiedo, e vi chiedo – e lo chiedo soprattutto alla gretta imbecillità degli antisemiti: se togliamo alla storia del mondo - religiosa, etica, sociale, scientifica – gli ebrei Mosheh, ‘Abhrahm, Yehoshua ben Yosef, Marx, Freud, Einstein… che ne sarebbe?... E come spiegare, come giustificare il complice silenzio di tutti? Perlomeno di tutti quelli che sapevano, che intuivano, e che potevano incidere con il loro potere? Con quale inaudita impudenza si può testimoniare l’avvenuta ascesa in cielo di una madre vergine, e non la contemporanea caduta di milioni di innocenti negli abissi della umana abiezione? Anche dalla Tiburtina, da una stazione nella città del Cristo in terra, partivano i treni per lo sterminio senza che nessun anatema li arrestasse. Doloroso e difficile è stato per l’autore immergersi in questo oceano di amarezza. Come uscirne senza scrivere di fatti e di giudizi che poco o nulla aggiungono al già scritto, al già detto, al risaputo? Ma la luce della poesia è stata il faro che ha illuminato l'approdo. Una luce nera è il dolente ossimoro che si riverbera nella struggente scrittura, la quale sfiora appena i fatti e si dilata nello smarrimento esistenziale che da quei fatti scaturisce. Parole che si frantumano ai singhiozzi della mente, si disperdono e si ricongiungono a tracciare la trama di un malessere senza riscatto e senza conforto. Da quella pesante putredine sublimano, esalano leggere pur trattenendo l'atroce ricordo, evanescenti come il fumo che usciva da quei macabri camini e che, testimonianza dell'eccidio, portava lieve con sé le anime delle vittime per liberarle in un cielo senza luce e senza dei.
Dolorosa e difficile l'impostazione registica. Può questa immane tragedia essere trattenuta in una struttura estetica? E quale?... Quella con meno estetismi, ho pensato. Quella che non descrive ma suggerisce: una "non scena" che disegna percorsi mentali, che imprigionano o si schiudono alla speranza; una recitazione prosciugata che non cerca compiacimenti né virtuosismi; una musica eletta che non cerca melodie; un tentativo di coinvolgerci tutti in un ineludibile senso di colpa.
Durata: atto unico 1 ora e 20’
PICCOLO ELISEO
Martedì 29 gennaio 2019 ore 20.00
Biglietteria tel. 06.83510216
Giorni e orari: lun. 13 – 19, da martedì a sab 10.00 – 19.00, dom 10 - 16
Non
si sa bene dove e quando siano nati gli strumenti ad arco. Sicuro è
che ne esistono tracce in quasi tutti i continenti.
Molte
culture antiche e moderne, utilizzavano e utilizzano strumenti ad
arco, come la Lira Greca e quella Calabra, il Kemence(Turkia),il
Sarangi(India),lo N'jarka(Mali), ne sono solo alcuni esempi.
Strumenti in alcuni casi caduti nell'oblio a favore del più moderno
e versatile violino.
Lo
strumento ad arco, assieme a rudimentali percussione e a modesti
flauti, ha accompagnato l'evoluzione dell'umanità, seguendolo nelle
varie fasi di transumanza.
Il
violino ancora oggi è simbolo delle popolazioni nomadi, dalla
Mongolia al Pakistan, dall'India al Corno d'Africa, Gitani, Sinti e
Tuareg hanno viaggiato col loro strumento, accompagnando il canto o
sostituendolo, per intonare le loro melodie.
Essendo
strumenti di piccole dimensioni e di facile trasporto, hanno comunque
la capacità di emettere suoni più o meno acuti, tali da sovrastare
il suono delle percussioni.
… un
violino tra gli schiavi !
Durante
la deportazione di schiavi nel continente americano,durato più di
400 anni, vennero trasportati anche oggetti esotici e preziosi, ed
alcuni strumenti musicali.
Sembra
che agli sciavi, durante le brevi pause, gli venisse concesso di
esibirsi in canti e balli.
In
alcune rappresentazioni dei campi di schiavitù, vengono
rappresentati alcuni schiavi suonare strumenti ad arco, come il già
citato N'jarka, violino monocordo di etnia Mande.
Questo
strumento si sarebbe evoluto in un Cigar Box Violin, strumento che
gli schiavi realizzavano con le scatole di sigari dei loro padroni,
un pezzo di manico di scopa e una corda metallica.
Big
Bill Bronzy, noto Bluesman ritenuto uno dei padri del Chicago
Blues,ha raccontato ad Alan Lomax, ricercatore ed etnomusicologo
americano, che quando era bambino si costruì un violino proprio come
quello descritto. Con questo rudimentale strumento e la sua voce
intratteneva i suoi amici nelle feste da ballo.
Solo
dopo aver partecipato alla seconda guerra mondiale, periodo nel quale
venne in Europa, e al suo ritorno, trasferitosi a Chicago, inizierà
a suonare la chitarra, diventandone uno dei più influenti artisti.
… un
figlio meticcio di nome Jass
Proprio
tra gli ultimi decenni dell'800 e primi decenni del'900, nello stato
della Louisiana, prendono vita numerosi generi musicali, dal Cajun
allo Zydeco, dal Delta Blues al Chicago Blues, dal Rag al Jazz. In
tutto questo fermento il violino è una delle voci forti, fa a
gomitate con le fisarmoniche e le cornette, in quel di Clarksdale
trascina gruppi di percussionisti ai polverosi pic nic di primavera,
dando origine elle poi più famose Marching Band di New Orleans.
Ci
sono artisti, luoghi e altri generi musicali che potrei menzionare,
ma per ovvi motivi non mi dilungo, diciamo che grazie al nuovo e
crescente mercato discografico, nasce il Jazz.
Di
fatto il 26 febbraio del 1917 a New York viene inciso il primo disco
sotto il nome di Jass. La band Original Dixeland Jass Band guidata
da Nick La Rocca è composta da tutti ragazzi bianchi figli di
immigrati europei, ma nati e cresciuti a New Orleans a stretto
contato con la comunità Africano Americana.
… DNA
!
Sicuro
che la componente Africano Americana è predominante nel DNA del
Jazz. La concezione poliritmica e l'utilizzo di strutture
armonicamente semplici come il Blues, sono ancora gli elementi
peculiari della musica di tutto il continente africano.
Ma
ci sono anche tante contaminazioni della musica occidentale. Oltre
alla popolare forma canzone con strofa e ritornello, vengono
riadattate le forme classiche della fuga, il canone e il Valzer.
… veloci
mutamenti !
Dopo
la diffusione del Jazz classico nel 1920, che era influenzato dal
Blues e dal Ragtime, arrivano il Dixeland e lo Swing, entrambi
suonati da piccole e grandi orchestre in affollate sale da ballo.
Generalmente erano composte di soli musicisti Africano Americani o di
soli “Bianchi”, i gruppi misti non erano molto apprezzati da
entrambe le parti.
Gli
anni '40 saranno tormentati dal Be Bop,un genere dal ritmo molto
veloce, dove i musicisti, in prevalenza Africano Americani, dopo aver
suonato nelle sale da ballo, si riuniscono tutta la notte nei piccoli
locali, fumosi e sotterranei di New York, per provare nuove tecniche
e formule musicali.
Contemporaneamente
nasce il Cool Jazz, nato sulle coste della California, suonato
prettamente da musicisti bianchi,si distingue per il suo ritmo calmo
e avvolgente,di ispirazione tardo romantica.
… la
propaganda !
Il
pubblico non va più a ballare il Jazz, ma ne diventa un cultore,
ascolta silenzioso, o quasi, ne colleziona i dischi e ne discute con
gli amici, di fatto il Jazz diventa la musica Nazionale Americana. I
musicisti di Jazz verranno mandati in tutti i continenti, come
soldati, a diffondere la cultura degli Stati Uniti. Suoneranno alle
TV locali e nei prestigiosi teatri di musica classica. Così questa
musica che fino ad allora s'era nutrita dei geni multiculturali
americani, abbraccia anche e viene abbracciato dal resto del mondo.
Già
al finire degli anni 50, in Europa sono nati circoli, festival e
scuole dedicati al Jazz.
Dopo
i revival di inizio '60, nasce il Free Jazz, non è solo musica ma
protesta, politica. Distruggere il sistema e ricrearne uno nuovo con
pari diritti per tutti senza distinzione di razza. Ma non è finita,
sempre più popolare assume nuove forme. Nasce il Jazz Elettrico e la
Fusion, generi che come i loro predecessori hanno fatto discutere
molto, ma che comunque hanno prodotto brani indimenticabili.
Oggi,
dopo 100 anni, il Jazz assume molti aspetti, in molte parti del
mondo, con alcune contaminazioni Etno o Word, ha dato vita a scuole
caratterizzate da un tipico suono d'appartenenza. L'Italia e la
Francia, i Paesi Scandinavi e il Giappone sono solo alcune delle
realtà più diffuse.
… un'orchestra di violini !
In
tutta questa ascesa, con eventi sempre più o meno sporadici, il
violini ne è stato uno dei protagonisti.
Ogni
forma di Jazz citata ha avuto uno o più rappresentanti dello
strumento. Non li elenco tutti!
…
Eddie South e Stuff
Smith anno animato il Dixeland,
Joe
Venuti negli Usa e Stephane Grappelli in Europa, la swing era. La
lista è affollata, dal Free di Leroy Jenkins alle contaminazioni di
Jean Lu Ponti, dal minimalismo di Mark Feldman elle incursioni
Fusion/ World di L. Shankar.
Oggi
ci sono molti artisti che propongono personali visioni dello
strumento.
… in
Italia !
In
Italia abbiamo diversi violinisti, che si cimentano sia nel
repertorio del Jazz classico che in quello moderno.
Ma
c'è un artista in particolare,che si muove a 360° nella musica
d'improvvisazione. In solo o in gruppi più o meno numerosi,
dimostra grande personalità.
Insomma
!... dalla minimal music alle Big Band ... Emanuele Parrini sa farsi
notare!
… viaggio
al centro del violino !
Qualche
tempo fa ho ascoltato il suo album di solo violino.
…
“viaggio al centro
del violino n°1” edito dalla Rudi Records nel 2014 è un vero
viaggio all'interno delle possibilità di questo strumento. In verità
in due brani è accompagnato dalla viola di Paolo Botti, ma il
contributo è talmente partecipato che non distoglie dalla trama ma
ne aggiunge spessore dando l'impressione di un corpo unico.
Un
album crudo e caldo, introspettivo, comunque difficile da spiegare
con le sole parole.
Oltre
all'ascolto, per capire il modo “Musica” di Emanuele Parrini vi
riporto la piacevole “chiacchierata” che abbiamo avuto:
Come
nasce la tua passione per la musica?
Sicuramente
il mio ambiente familiare ha favorito questa attitudine, ha stimolato
la mia curiosità e la determinazione con cui sono andato, poi, a
ricercarmi le cose. Come dire, un input ci deve essere, ma sta a te
coltivarlo.
Ho
avuto la fortuna di crescere in una famiglia che si è adoperata per
farmi fare esperienze su più fronti, portando me e mio fratello a
vedere spettacoli, proponendo libri, facendoci viaggiare.
Per
farti un esempio concreto: mia madre è di Spoleto ed il fatto di
passare là feste comandate e parte delle vacanze estive, ha
facilitato la possibilità di andare a vedere, sin da bambino, gli
spettacoli del Festival dei due Mondi ed in seguito Umbria Jazz. Mio
zio è un appassionato di Jazz, mio cugino è un batterista e con
loro ho vissuto i primi concerti.
Certo,
sono stato fortunato ed il ricordo è quello di un periodo di
scoperte e grande complicità.
Col
violino e stato amore a prima vista?
Amore
a prima vista. Subito, dal primo momento che misi gli occhi su quello
strumento di mio nonno tirato fuori dall’armadio dove stava ad
ammuffire. Per la verità non era uno strumento eccezionale e mio
nonno era stato un suonatore più che dilettante (la mia bisnonna lo
chiamava “pane e aceto” quando lo sentiva suonare non gradendo
particolarmente), ma era divorato dalla passione e quella passione mi
è arrivata e si è appropriata di me.
Hai
fatto studi classici?
Sì,
ma in maniera non istituzionale, nel senso che ho frequentato la
Scuola di musica di Orbetello, ho preso lezioni da un violinista
barocco da cui andavo una volta al mese, ma non ho frequentato un
Conservatorio e non ho un Diploma.
Comunque
ho avuto dei grandi insegnanti e con loro ho studiato tanto e
duramente, tanto che ho conservato quella disciplina e quel senso
critico dello studio nel mio percorso successivo.
Come
ti sei accostato al Jazz?
Mi
sono accostato al Jazz in maniera spontanea. All’inizio si è
presentato frequentando la Scuola di Musica nella persona di Giulio
Libano, musicista, arrangiatore e compositore di successo che veniva
a dirigere una piccola orchestra di studenti ed appassionati il cui
repertorio prevedeva anche grandi classici come Moon River, Over The
Rainbow o Take the “A” Train di Ellington oltre ai sui brani
originali (tra cui anche un quartetto d’archi per noi studenti di
violino). Poi con l’ascolto degli Lp dell’Enciclopedia della
Fabbri spulciata per curiosità con cui scopro Stephane Grappelli, ed
il primo concerto a 15 anni con mio zio a vedere Art Blakey Jazz
Messengers.
Quali
sono i tuoi riferimenti musicali?
Al
di là degli ascolti, che sono fondamentali, ho avuto la fortuna di
avere degli insegnanti e di fare degli incontri da musicista che
sicuramente hanno segnato la mia formazione.
Adoravo
il mio insegnante di violino Antonio Cavallucci e volevo essere come
lui, così come adoravo Giulio Libano con cui sono rimasto in
contatto anche quando la musica oltre ad essere la mia passione era
diventata il mio lavoro.
Più
avanti, quando frequentavo i seminari invernali di Siena Jazz, una
figura fondamentale è stata Furio Di Castri, nel cui gruppo di
musica d’insieme imparato cosa voleva dire veramente suonare in un
gruppo ed affrontare un repertorio.
Da
adulto gli incontri più significativi e formativi, insomma, quelli
che hanno segnato di più il mio percorso influenzandolo sono stati
quelli con Butch Morris, Anthony Braxton, Cecil Taylor e William
Parker.
Aver
toccato con mano il loro pensiero,
esplorato con loro il loro punto di vista sulla musica è stato un
privilegio illuminante. Sopra tutti, però, quello che ritengo il mio
Maestro, personale riferimento umano e musicale è Tony Scott.
Oltre
a quello che rappresenta dal punto di vista affettivo, è il tramite,
il mio collegamento personale con la musica.
Vorrei
parlare anche di Amiri Baraka, che musicista non è, ma che con la
musica ed i musicisti ha avuto molto a che fare e rappresenta un
esempio di determinazione, lotta e resistenza.
E
poi quelli con cui divido il palco, la musica, i viaggi e la vita.
Dimitri
e tutti i Dinamitri, Silvia Bolognesi, Paolo Botti, Giovanni Maier,
Samuele Venturin, Tony Cattano ed un altro dei miei Maestri che è
Tiziano Tononi.
Gli
artisti e i generi musicali che ti hanno stimolato nel tempo?
E’
un lungo elenco! Parker, Dolphy, Hank Mobley, Clifford Brown, Archie
Shepp, Ellington, Bix, i grandi violinisti come Grappelli, Ponty o
Stuff Smith, Massimo Urbani, Ayler, Mingus, Coltrane, Monk, Bill
Evans, Muhal, Miles Davis.
Mi
è sempre piaciuto Vivaldi, ma anche Mozart, Bach, Bartok oppure
Springsteen, De Andrè, Dalla, il desert Blues, Bowie, insomma,
quelli
che hanno cercato di dare un contributo personale e se la sono
rischiata.
Ognuno
di noi vive periodi diversi e le cose che ti fanno sognare, ti
ispirano o semplicemente attirano la tua attenzione, di conseguenza,
sono diverse.
Arrivi
a scoprire le cose nelle maniere più varie. Si arriva anche a
mitizzare un po’ i propri eroi, ma come mi disse una volta Archie
Shepp ”Ad un certo punto devi cominciare a mettere in discussione i
tuoi Maestri”.
Lo
trovo un grande insegnamento.
Molti
lamentano il fatto che le scuole propongono metodi di studio rigidi e
antiquati, cosa pensi in merito?
Si
smette mai di studiare? ... o anche questa pratica e sempre utile
anche per la ricerca del proprio linguaggio?
Per risponderti ti
propongo le parole di Henry
Threadgill,
di un suo scritto pubblicato di recente su Musica Jazz:
“Molti
musicisti di oggi hanno un grosso problema. In primo luogo, sono
stati influenzati in maniera errata dalle scuole e dalle università
che interferiscono con il processo creativo della black music. Ogni
musica ha il suo processo creativo, quella cinese, quella balinese,
quella indiana. Il punto è che queste scuole hanno pensato di
applicare alle altre musiche il processo creativo della musica
europea (e non c’è niente di sbagliato, beninteso, nel processo
creativo della musica europea, che per la musica europea ha sempre
funzionato a meraviglia), ma questo processo non funziona per la
musica indiana o per la black
musice
così via. Il processo creativo sta tutto nel modo in cui si arriva
a creare arte, e queste università funzionano proprio come catene di
montaggio. Tutti imparano le stesse cose, semplicemente rivisitando
la storia della musica. Ma in questo modo non verrà mai fuori niente
di nuovo. Ed ecco il problema, con tutti questi musicisti che si
assomigliano l’un l’altro, che suonano le stesse cose, che non
hanno alcun interesse nel sembrare diversi. Non sanno neanche
riconoscere chi sta suonando in un determinato momento, musicisti che
hanno quaranta o cinquant’anni più di loro. Stanno lì a farsi
raccontare tutto dalle scuole. Trenta allievi in un’aula, ai quali
viene detto come passare da A a B, e tutti finiscono per passare da A
a B nella stessa precisa maniera. Eppure basta ascoltare con
attenzione per capire che Dexter Gordon passa da A a B in un certo
modo, Eddie Lockjaw Davis in un altro, Coleman Hawkins in un altro
ancora, Sonny Rollins e John Coltrane hanno ciascuno una strategia
personale. Questo perché la musica è un fatto individuale, e di
conseguenza ogni musicista deve arrivare a queste procedure da solo.
Non c’è altro metodo per il jazz o per la improvised
black music,soltanto
un processo individuale che dev’essere conservato e rispettato”.
Sucuramente è uno
spunto di riflessione molto profondo. Non so da dove arrivi questo
pensiero diffuso di omologazione, che non credo abbia a che fare solo
con la questione scolastica, ci sono in giro insegnanti molto bravi,
ma è più esteso. Forse c’è la paura di essere diversi, che i
tuoi colleghi, compagni di studi, il pubblico non riconoscano il tuo
stile, la tua musica e non sappiano dove collocarti. E’bellissimo
suonare immedesimandosi con i propri eroi e tutti noi abbiamo rubato
un po’ qua e un po’ là, ma ad un certo punto deve arrivare
l’accettazione di te stesso, di quello che sei e da quel momento il
lavoro diventa più duro, lo studio più difficile e non finisce mai
perché ti fa conoscere chi sei sempre più profondamente.
Quali
sono gli ascolti che consiglieresti per allargare i propri orizzonti?
Direi
tutto. In generale quello che desta curiosità, anche le cose
peggiori sono fonti di spunto. Tutti abbiamo degli ascolti preferiti,
ma consiglio di ascoltare di tutto.
Quali
sono oggi i progetti che vorresti realizzare?
Sto
lavorando ad nuovo album e come spesso mi capita mi sono creato una
storia che sto elaborando e sviluppando.
Sto
scrivendo musica, ma sono previsti anche brani di quelli che saranno
i miei compagni. Sono a buon punto e spero di entrare in studio
presto anche se non mi sono dato scadenze perché prima vorrei
riuscire a pubblicare il concerto del mio Quartetto con Taylor Ho
Bynum per il Centro D’Arte Padova.
Una
bellissima esperienza resa possibile dalla collaborazione tra il
festival di Novara Jazz, Pisa Jazz ed appunto il Centro d’Arte
Padova. La musica mi piace molto e vorrei documentarla su disco e da
lì ripartire per dare continuità al gruppo.
Infine
dedicarmi all’omaggio al mio Maestro Tony Scott e alle sue
composizioni. Ho rimandato questo appuntamento per troppo tempo, e mi
pesa. Adesso ne sento l’urgenza.
Negli
anni settanta ci sono stati illustri musicisti che hanno abbracciato
l'idea di pensare ad una musica totale, dove si superasse la
distinzione tra i generi, oggi viviamo in una societa globalizzata
priva di filtri, nella quale la contaminazione viene distorta a
favore di prodotti musicali finalizzati al solo scopo commerciale.
Oggi
qual'e il contributo che può offrire un musicista per recuperare
tradizione pur rimanendo nella “modernita”?
L’onestà
nei propri confronti, della Musica e del pubblico.
I
personaggi di cui parli hanno lottato e difeso con le unghie e con i
denti, attraverso difficoltà spesso anche economiche, una musica
complessa.
Anche
loro hanno attinto alla tradizione, ma per dirla ancora con le parole
di Threadgill:
”La tradizione
implica l’andare avanti, non è basarsi su un repertorio che viene
reinterpretato in continuazione. E io faccio parte di quella
tradizione che va avanti, che non smette mai di estendersi ”.
venerdì 11 gennaio 2019
Auditorium Parco della Musica – Teatro Studio Borgna
Domenica 13 gennaio ore 18.00
“Il giro del giorno in ottanta mondi. Incontro con Enrico Rava”
incontro con Enrico Rava conduce Stefano Zenni
A seguire, proiezione del docufilm “Enrico Rava. Note Necessarie”
Per celebrare il suo ottantesimo genetliaco, domenica 13 gennaio, alle ore 18.00, al Teatro Studio Borgna dell’Auditorium Parco della Musica, il giornalista Stefano Zenni incontra il trombettista che è stato ed è ancora un protagonista del jazz, Enrico Rava. Attraverso i dischi e le sue parole si ripercorre una carriera cosmopolita, varia e avventurosa, che ha sprovincializzato il jazz italiano proiettandolo a livelli internazionali. Alla fine dell'incontro sarà proiettato il docufilm “Enrico Rava. Note necessarie” di Monica Affatato.
Questa lezione è in forma di dialogo-intervista a Enrico Rava, protagonista del jazz italiano ed europeo. Un’occasione per entrare nei dettagli della sua concezione musicale e stilistica, attraverso ascolti ed esempi strumentali. Le Lezioni di jazz, giunte alla settima edizione, si confermano l’occasione ideale per avvicinarsi ad uno dei generi musicali più importanti e sorprendenti del nostro tempo, per approfondire le sue figure più significative, i capolavori memorabili, gli strumenti, le connessioni con i grandi temi della cultura. Ogni lezione è condotta con un linguaggio accessibile anche al non specialista e procede con ascolti, filmati, grafici nonché esempi al pianoforte. Dalla sesta stagione, le Lezioni si tengono in un nuovo orario, alle 18.
La vita di Enrico Rava, musicista geniale e innovativo, corrisponde a un importante pezzo di storia del jazz e della musica in generale, in un momento storico di grande fermento sia politico che culturale. Attraverso la ricerca di Monica Affatato, che con grande curiosità e consapevolezza ha ripescato dagli archivi materiali unici e rari, arricchito da approfondimenti teorici di Stefano Zenni che contestualizzano questa musica così evolutiva, ripercorriamo con Rava (e attraverso Rava) decenni di arte. La collaborazione con Altan, che nel 1997 illustrò “Noir” con un inedito fumetto in cui Rava era protagonista; il duetto con Bollani (che nel documentario racconta anche i “dietro le quinte”del loro tour); la collaborazione con artisti come Michelangelo Pistoletto (che curò nel 1980 la copertina del suo LP "Ah"); la presenza nel film di riprese rare di Pier Paolo Pasolini; le jam session con Gato Barbieri; le serate con le leggende del jazz italiano come MassimoUrbani e uno strepitoso concerto con Michel Petrucciani.
Con uno stile fresco, vengono raccontati il passato e il presente in un medley di eventi unici e irripetibili raccontati in prima persona da chi li ha vissuti, raccolti e confezionati con originale capacità.