venerdì 29 novembre 2019

ALVITO




Il 23 dicembre del 2018 nel Borgo di Alvito (FR) presso il Teatro Ducale all'interno del Palazzo Gallio,

 Dario Germani al contrabbasso e Roberto Cervi alla chitarra hanno registrato il “live”
pubblicato quest'anno dall' etichetta “Jazz Engine”.
 I brani portano i nomi di luoghi rimasti nel cuore di Dario, noto, musicista/compositore
e appassionato viaggiatore. 

Ci sono i luoghi dell'infanzia , Sora, Tivoli e Alvito, da cui prende il nome l'album. 







Ma anche le
grandi mete del Jazz, New York e New Orleans.







Ogni brano è un capitolo del suo diario sonoro, suoni ricordo che ha conservato da ogni viaggio. 
Le voci delle persone che ha incontrato , il caos o il silenzio dei luoghi che ha attraversato, i locali
notturni e gli artisti di strada. 
No ci sono distinzioni di genere, ogni suono è importante, ma anche
ogni mezzo, per rievocare quelle sensazioni.

I mezzi sono gli strumenti acustici ma anche elettronici, indispensabili per ricreare le vibranti
suggestioni vissute. 




Tra le sinuose linee del contrabbasso e le eteree alchimie della chitarra si
alternano caleidoscopiche immagini sonore.
Un album intimo e generoso, rivolto al prossimo, dove vengono abbattuti i muri e dove si parla una
lingua universale ….... LA MUSICA.

www.dariogermani.com

www.jazzengine.com

venerdì 8 novembre 2019

INNOCENCE





Oggi esce INNOCENCE , un doppio CD edito dalla AUAND RECORDS, che contiene brani
inediti eseguiti in piano solo da Luca Flores.
Luca ci ha lasciato nel marzo del 1995, dopo la sua morte fu pubblicato l'album
“For Those I Never Knew “, da allora non sono state rese note altre
registrazioni a suo nome. 
Negli anni ci sono state molte iniziative per ricordarlo,un libro, il film e
tanti concerti. Ma … forse si è premuto un po troppo il dito sulle ferite che si
portava addosso e si è perso un po l'Artista.
Questa nuova pubblicazione ci ridona l'Artista. Un uomo desideroso di realizzare
qualcosa di grande. Un progetto ambizioso, creativo, che lo ricongiunga alla sua
infanzia. Anche quando si rende conto che i mezzi per realizzarlo non saranno
sufficienti non perde l'intenzione, così continua a registrare.
Col solo piano riesce a contenere gioia e dolore, allegria e tristezza, buio e
luce, bianco e nero. Ogni elemento si muove sinuoso e sfuggente sfiorando
l'altro ma senza invaderlo, un gioco pericoloso che può far perdere l'equilibrio, ma Lui ha la maturità giusta, si muove intrecciando le sue
passione creando e ricreando brani nuovi, minimalisti, romantici ed
introspettivi, elementi tipici del suo stile. 













Dopo una serie di peripezie Paolo,fratello di Luca, riesce a recuperare questi
brano ma non sa come condividerli, cosi chiede consiglio ad Alessandro Galati
che ha curato il Mastering.

Ho chiesto ad Alessandro, amico di Luca e noto pianista, come ha vissuto questo
progetto discografico:

Quando hai conosciuto Luca ?
Lui viveva qui a Firenze come me, io avevo venti anni e mi affacciavo al mondo
della musica con molte “speranze!”. 
Luca era un pianista affermato, conosciuto in tutta Italia. Per me era una vera
fortuna ascoltarlo, stare seduto a un metro di distanza mentre suonava nei club.
Era una persona gentile e mi faceva molti complimenti, anche se non è stato mai
il mio insegnante non mancava di darmi ottimi consigli.
Abbiamo insegnato nella stessa scuola, io “forse immeritatamente” avevo una
classe di principianti, lui aveva una classe di allievi più avanzati.

Cosa pensi del suo modo di suonare?
Aveva un dono che avevano solo i grandi, un pianista profondo, la sua musica era
piena della sua personalità , un chiaro scuro continuo, stati d'animo che si
alternano con grande profondità, aveva un linguaggio complesso. 
Intendo dire che la sua complessità era nella profondità del gesto,
nell'intensione. Nonostante fosse il suo un linguaggio molto ricco, arrivava a
più persone, questa sua ricchezza permetteva ad ognuno di trovava la sua chiave
di lettura, risultando alla fine di facile ascolto, anche se facile non era!

Nel libretto del album, Paolo racconta che Luca voleva dedicare questo progetto
alla sua infanzia in Mozambico. Quanto è forte la matrice africana nella musica
di Luca?
Era un grande studioso e appassionato di McCoy Tyner, il pianista del famoso
quartetto di Coltrane, che si ispirava molto alle influenze africane,
soprattutto all'uso delle pentatoniche e delle armonie quartali.

Come hai conosciuto Paolo ?
Ho conosciuto Paolo qualche anno fa qui a Firenze, durante un concorso
pianistico di jazz organizzato dal Maestro Marco Vavolo, che è stato insegnante
di Luca, al quale ha voluto dedicato l'evento. Abbiamo molto parlato di Luca e
del periodo che ha vissuto qui a Firenze. Forse è per questo che mi ha scelto
per il Mastering.

Ti eri già cimentato in lavori di Mastering ?
Ho uno studio di registrazione in cui lavoro soprattutto per me e per alcuni
amici, ma no è la mia occupazione principale. Negli anni, lavorando affianco ad
alcuni dei più grandi ingegneri del suono, ho collezionato tante nozioni. In
Italia, a Tokyo, ed a Oslo assieme ad Erik Kongshaug il quale ha creato il
suono della ECM, registrando e valorizzando grandi star del Jazz Mondiale.
( Purtroppo mentre sto scrivendo l'articolo vengo a conoscenza della morte di
Erik. L'enorme quantità di articoli, post e dediche sul web danno l'idea della
sua passione e della grande quantità di lavoro che ci ha lasciato, una triste
perdita per il mondo della musica.)

In che condizioni erano i nastri ?
Paolo mi ha portato quasi quattro ore di registrazioni, alcuni brani si
ripetevano, altri erano originali.
C'erano diversi rumori di sottofondo, interruzioni, frammenti di brani che forse
Luca aveva intenzione di ricucire inseguito. Dopo un lungo ascolto ne ho
ricavato una scaletta , che Paolo ha approvato e sottoscrivendo con piacere.

Non hai avuto dubbi se fosse giusto o no pubblicare questi brani , nonostante
Luca li avesse scartati ?
Non so lui cosa avesse in mente, ma se fossero stati brani suonati in modo
pallido senza personalità ti avrei detto di si, in realtà su quattro ore di
musica ho dovuto scartare un bel po di cose, quello che è rimasto è altrettanto
valido, io ho solo scelto quello che ritenevo più idoneo per questa
pubblicazione.

Visti i risultato, Paolo non avrebbe potuto fare scelta più azzeccata. Grazie
alle sue capacità tecniche, alla sua sensibilità come pianista e amico di Luca,
Alessandro ha saputo ricreare un ambiente caldo e intimo, etereo, dove i brano
fluttuano senza tempo, ricreando quelle pause che solo un interprete sa
riconosce, “un chiaro scuro continuo”.
Ringrazio Paolo Flores, Alessandro Galati, Marco Valente e tutti quelli che
hanno contribuito a questo progetto
Non so se sia stato giusto o meno pubblicare queste registrazioni, so solo che
dopo averle ascoltate non ne posso fare più a meno !!!!





domenica 3 novembre 2019

Sexuality



Il nuovo lavoro di Simone Graziano, in uscita per Auand, si intitola
“Sexuality”ed è il terzo capitolo nella storia del quintetto Frontal,
che si conferma uno dei progetti più solidi del pianista fiorentino.
Assieme a Dan Kinzelman al sax tenore, Gabriele Evangelista al
contrabbasso, Stefano Tamborrino alla batteria e il nuovo “acquisto”
il chitarrista olandese Reinier Baas, il quintetto genera un album
stratificato ed energico.
Anche se già dal primo ascolto si rimane piacevolmente incantati, va
comunque ascoltato più volte per comprendere la complessità dei vari
livelli del tessuto ritmico e l'introspettivo messaggio. La
poliritmia è il motore centrale di tutto l'album, ispirato dal libro
di Simha Arom African Polyphony and Polyrhythm.
«Simha – racconta Graziano – era un cornista che avrebbe dovuto
fermarsi quattro giorni nella Repubblica Centrafricana per alcuni
concerti in orchestra. Poi si è imbattuto nella musica delle bande
pigmee dell’Africa Centrale, e ha finito per restarci quattro anni,
trascrivendo tutto il repertorio e tutti le linee strumentali dei
vari gruppi pigmei»
Graziano decide di utilizzare la poliritmia come mezzo per descrivere
la quotidianità.
 «L’idea di base – aggiunge – è creare livelli ritmici diversi che
convivono nello stesso momento. Del resto è quello che avviene
costantemente nella vita reale: mentre scrivo sento il suono della
moto che passa, dell’ascensore che sale, le voci di passanti per la
strada, cui si aggiunge il ticchettio delle dita sulla tastiera del
computer. Siamo abituati a selezionare ed eliminare ciò che
consideriamo “superfluo”, ma in realtà la natura è intrisa di
poliritmia e polifonia. La musica di questo disco cerca di
rappresentare la complessità della natura».




Ma l'elemento ritmico non è l'unica musa presa in considerazione, c'è
anche la voglia di parlare di un elemento molto discusso nei millenni

«Il titolo – aggiunge il pianista – è ispirato al libro di Stephen
Mitchell, “L’amore può durare”. L’assunto iniziale è semplice: degli
elementi costitutivi del sesso noi conosciamo solo i fattori
ambientali, genetici, biologico-ormonali, generazionali. La scienza
non riesce a spiegare fino in fondo da cosa nasca questa forza che
lega, nei più svariati modi, tutti gli esseri viventi. È proprio su
questo cono d’ombra che da sempre hanno agito i poteri forti:
religioni e governanti hanno sempre cercato di esercitare un
controllo sulla sessualità, consci di poter così controllare una
grande fetta dell’umanità. Oggi si assiste ad un’altra forma di
controllo del sesso: le innumerevoli chat sulle diverse piattaforme
social. A ciò si aggiunge la pornografia sul web, alla portata di
chiunque con una manciata di click».
Toccare l'amore “per la Musica” senza filtri e ostacoli....
«”Sexuality” – conclude Simone Graziano – vuole essere una spinta a
recuperare il valore del contatto reale e dell’unione tra gli esseri
umani. Sia ben chiaro, non per un senso etico, ma come forma di
ribellione a un sistema che lucra sul nostro piacere».







Ogni brano dell'album ha una sua peculiarità, ma tutti insieme danno
vita ad un unico principio. Graziano & co , forti dalla loro lunga
collaborazione, animano il progetto con un ricco caleidoscopio di
suoni , impreziositi dai continui balzi dinamici e dai frequenti
cambi di tempo. L'importante è saper ascoltare …. e se qualcosa
sfugge non sarà un problema riascoltarlo.


Produced by Simone Graziano
Executive Producer: Marco Valente
Recorded at Artesuono, Cavalicco (UD) – Italy
Engineer: Stefano Amerio
Cover Photo: Caterina Di Perri


http://auand.com/

http://www.simonegraziano.it/


martedì 15 ottobre 2019


AUAND's DAD


Diciotto anni fa , a Bisceglie in Puglia, in piena crisi economica, italiana e mondiale, Marco Valente pensa bene di fondare un'etichetta discografica. Nonostante le incerte aspettative, da allora ad oggi la AUAND record ha prodotto oltre le cento pubblicazioni discografiche, tra CD, Vinile e anche su supporti 
digitali.





Sono stati coinvolti artisti provenienti da diverse realtà del Jazz internazionale, soprattutto le giovani promesse. Come il primo “X-Ray” , debutto discografico del trombonista barese Gianluca Petrella , oppure “It's Mostly Residual” del Cuong Vu Trio + Bill Frisell.

Il “Valente” discografico non sceglie di dedicarsi ad un unico stile di musica, come invece prediligono in molti, ma di ricercarne altri , sempre nuovi. Così, oggi, la AUAND offre un esteso panorama sonoro, molte novità e indicazioni su cosa si può ascoltare sul Jazz del nuovo millenio .
Oltre all'alta qualità degli artisti e della musica originale che viene pubblicata, il secondo punto forte dell'etichetta è l'enorme lavoro di promozione. Sembra impossibile che un uomo da solo sia riuscito a tessere una tela così estesa di contatti, forse grazie al suo nomadismo.

Sicuro è che Marco non si è interessalo solo dell'aspetto economico. Quello che gli interessa di più è dare e scambiare informazione , affinché tutti ne traggano profitto. Così negli anni ha promosso diverse iniziative collettive che oggi sono di grande sostegno, per i musicisti e le etichette, giornalisti/fotografi e festival, ma soprattutto per i fruitori.


Il resto è storia, ma ve lo lascio raccontare da lui …...












Chi era Marco Valente prima di diventare un discografico?
Era sicuramente un grande appassionato di jazz che acquistava tanti CD in maniera quasi compulsiva e che a vent'anni, per capire meglio questa musica dal di dentro, ha deciso di studiare contrabbasso riuscendo, pochi anni dopo, anche a calcare qualche palco.

Non dire il calciatore! … qual'era il tuo sogno da bambino?
Il calciatore. L'ho detto. E a cinquant'anni vado ancora a giocare ogni domenica. Finché reggono le gambe.

Hai suonato in qualche gruppo?
Come dicevo, tra il 1995 e i primi anni 2000 sono riuscito a togliermi qualche soddisfazione. Ho avuto modo di suonare (o forse sarebbe meglio dire che ho provato a star dietro) con Mirko Signorile, Gaetano Partipilo, Gianluca Petrella, Pino Minafra, Vittorino Curci, Felice Mezzina, addirittura Antonello Salis in un paio di occasioni.









Hai mai inciso qualcosa di tuo?
Solo un paio di brani, mai pubblicati.

Quali erano i tuoi dischi preferiti?
Ce ne sono alcuni che sono ancora tra i miei preferiti: 80/81 di Pat Metheny, il quartetto americano di Jarrett, il primo disco omonimo di Michael Brecker, i Bass Desires, gli Steps e gli Steps Ahead, alcuni dischi di Abercrombie, il periodo Elektra di Frisell e i Columbia di Tim Berne, tutto quello che usciva in quegli anni di JMT. Ascoltavo anche tanto jazz italiano: Rava innanzitutto, Pieranunzi, Gatto, Giovanni Tommaso, Trovesi, Minafra, Ottaviano, Battaglia, Fresu.

Qual'è la tua etichetta preferita?
JMT sicuramente. Impulse tra le storiche. Un determinato periodo ECM che va tra gli anni '70 e la fine degli anni '80.

Qual'è stata la tua prima esperienza da discografico?
Una compilation di jazz italiano stampata nel 2000, un anno prima di fondare Auand. E' stato un po' un banco di prova, un esame propedeutico.

Quando hai creato AUAND RECORDS eri da solo?
Solissimo e purtroppo lo sono ancora. Ho sempre sognato che un giorno venisse a citofonare un ragazzino con la passione per il jazz a chiedermi di dare una mano.

Quali sono i tuoi parametri per scegliere o rifiutare un disco?
Direi che è tutto spiegato nel pay-off di Auand: Energy, Risk, Conviction and the Unexpected: l'energia, il rischio la convinzione e la sorpresa. Sono questi gli elementi che cerco, sia come ascoltatore sia come produttore. Certamente non voglio sentirmi rassicurato.









È più importante l'immagine del suono o il suono dell'immagine?
Con questa hai vinto il premio “Marzullo del Jazz 2019”. Produrre un disco oggi vuol dire fare attenzione a così tanti particolari che mi perderei facilmente nel risponderti. Tutti gli elementi hanno la loro importanza.

Come è nata la scelta del nome AUAND?
Buttando giù una lista di quasi cento nomi con il grafico che si è occupato della creazione del logo e dell'immagine e che ancora lavora con me. Poi abbiamo ristretto ad una ventina, poi sempre meno anche grazie al confronto con David Binney e un professore di italianistica della NYU. Alla fine abbiamo optato per AUAND perché suonava bene anche per gli anglofoni.







Con la Nazionale Italiana Jazzisti hai unito due tue grandi passioni, qual'è il tuo ruolo all'interno?
Sono stato il fondatore, nel 2013, e primo presidente quando abbiamo costituito la Onlus. Ora gioco solamente, quando riesco a conciliare gli impegni. Riusciamo a raccogliere fondi per beneficenza divertendoci e questo è importante.

Cos'è ADEIDJ e il patto di intesa?
E' l'acronimo di Associazione delle Etichette Indipendenti di Jazz ed è stata da me fondata all'inizio del 2018 quindi stiamo terminando il nostro secondo anno di vita. ADEIDJ fa parte della Federazione “Il Jazz Italiano” che vede partecipare altre associazione legate al nostro mondo: quella dei musicisti, dei festival, dei club, degli agenti, dei fotografi e di chi si occupa di formazione. E' ancora presto per tirare le somme ma già il fatto di essere tutti insieme attorno ad un tavolo fa crescere tutto il sistema e ci porta a pensare a strategie per il futuro di tutta la filiera. C'è sicuramente tantissimo da fare.
Sono necessarie tutte queste sigle e procedure istituzionali , non c'è il pericolo che si perda un po lo “spirito imprevedibile del Jazz”?


Siamo stati cani sciolti per tanti anni e ora lo stato delle cose ci ha portato ad unirci e discutere del futuro di questa musica in Italia. Alla maggior parte dei concerti il pubblico è over 50 e manca un pubblico giovanissimo. Questo è uno dei principali problemi di cui stiamo discutendo. Sarà necessario ricreare un pubblico da zero se non vogliamo vedere questa musica sparire dai cartelloni. In più ci sono tantissimi problemi strettamente burocratici da risolvere: il sistema contributivo e pensionistico dei musicisti, l'inquadramento stesso dei musicisti nel mondo del lavoro, l'inquadramento anche dei club che investono in operazioni culturali, l'IVA sui dischi, la mancata retribuzione collegata allo streaming del prodotto discografico, e tanto altro.

Dopo Bisceglie, New York, Roma e recentemente Torino, dove è diretta la tua curiosità?
Ovunque! In questo momento il mio pensiero è di sondare paesi diversi facendo delle medio/brevi residenze. Ma Bisceglie e la Puglia resteranno sempre e comunque il punto fermo, la base dove tornare. Qui si vive troppo bene. Giusto per farti capire, sono andato a fare un bagno al mare lo scorso 10 Ottobre, due giorni dopo ho comprato un'intera cassetta di cachi a 3 Euro, mangio pesce spesso senza svenarmi (a Torino un giorno ho deciso di prendere del pesce spada e ho speso 35 euro per due persone, dopo di ché ho mangiato carne per il resto dell'anno). Credo siano benefit inarrivabili in città metropolitane e a 50 anni quasi suonati tengo molto alla qualità della vita.



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giovedì 19 settembre 2019


Genetica del suono








Personalmente ho iniziato ad interessarmi anche all'etnomusicologia agli inizi degli anni '90. All'epoca studiavo chitarra classica e il mio Maestro mi fece studiare i Mikorokosmos di Bela Bartok. Non sapevo chi fosse così presi il primo libro che trovai su di Lui. “scritti sulla musica popolare” è solo uno dei tanti testi realizzati dal grande compositore ungherese. Leggendolo rimango sorpreso già dalle prime righe della prefazione di Zoltan Kodaly:

"Nel 1912 ci recammo con Bartok ad un convegno di musicisti a Roma, nelle due settimane di soggiorno nella città eterna,facemmo anche alcuni giri nei dintorni. Una volta Bartok ritornò da Albano con un canto popolare che aveva ascoltato da lontano , era una melodia antica, del tutto particolare e ricordava le melodie romene. Cercammo anche altre raccolte italiane, ma nulla che non portasse tracce visibili dell'influenza della più recente musica classica. Sebbene la melodia di Albano difficilmente potesse essere l'unica e anche se la musica colta avesse assorbito da secoli la musica popolare, dovevano pur esserci delle tracce.”

Si da il caso che io sia proprio di Albano. All'epoca studiavo e ascoltavo molta musica ma non conoscevo canzoni popolari o tradizionali di Albano così antiche. Forse qualche stornello o canzone folcloristica che non aveva più di 100 anni.
I rapporti con la Romania risalgono a quando Traiano invase la Dacia. Albano e gli altri paesi dei Castelli Romani erano usati dall'impero come legioni dove addestrare i soldati provenienti dalle terre conquistate. Dopo duemila anni, riscontrare similitudini con altre melodie ritrovate in Romania da Bartok agli iniziato nel 1905 è incredibile, ma non impossibile.
Durante il 1900 l'etnomusicologia si è evoluta velocemente, prendendo spunto e ispirazione da altre forme di ricerca ha elaborato diversi metodi di comparazione fino ad utilizzare le ultime scoperte nella ricerca genetica. Ha eretto così ponti immaginari che nel corso dei secoli hanno permesso alla melodie di fare il giro del mondo.

Il discorso sulla “Genetica del suono” si insinua in molti temi della ricerca, la storia dell'umanità è ricca di aneddoti sulla sua creazione e sul suo utilizzo. Da Pitagora ai giorni nostri la filosofia e la scienza hanno dimostrato molto interesse sull'argomento.
In termini filosofici, Herbert Spencer diceva che tutto nasce da un’esigenza emotiva, psicologica, perché le parole non sarebbero riuscite a esprimere con la stessa efficacia della musica, mentre Darwin affermava che la capacità di creare un linguaggio musicale non sia prerogativa dell’uomo. Basta osservare il mondo animale per rendersi conto di come sia insita in tutti gli esseri viventi e il più delle volte legata funzionalmente alla competizione sessuale. Darwin, in pratica, afferma che la musica non è, come per Spencer, un’elaborazione culturale tarda, ma una pratica molto più remota, radicata e distribuita nel mondo vivente.

Per gli scienziati la musica, è iscritta nel nostro DNA , dove il suono è all’origine delle cose. Secondo la meccanica quantistica, la materia non è mai inerte, ma è costantemente in uno stato di moto, di vibrazione continua. Il fisico austriaco Fritjof Capra diceva: “Ciascuna particella canta perennemente la sua canzone“. Tutto ciò che compone la realtà, vibra. Anche oggetti inanimati e densi come le pietre, un esempio eclatante è quello dello scultore Pinuccio Sciola, che ci appaiono materia solida, di fatto, sono forme di energia che vibrano, seppure a frequenze molto lente. Come diceva anche Pitagora Tutto nell’Universo è energia in vibrazione e genera un suono.

Grazie alla genetica, che ha rivoluzionato il ventunesimo secolo, ad oggi non c'è studio storico antropologico che non si avvalga delle moderne scoperte sul DNA. Alcune intuizione, prive di dati oggettivi, ricavate dagli studi di storia, antropologia, linguistica, etnomusicologia etc, sono state confermate o contraddette, generando nuove teorie. L'etnomusicologo Victor Grauer per il suo libro “Musica dal profondo” ha arricchito la sua ricerca utilizzando i recenti risultati ottenuti dagli studi genetici. Sembra che le attuali popolazioni di pigmei e boscimani
, entrambe le popolazioni condividono un linguaggio musicale distintivo, sono dirette discendenti di quella piccola popolazione di esseri umani che tra 70.000 e 100.000 anni fa iniziò a colonizzare i territori fuori del continente africano, un’impresa di cui ora vediamo il risultato sotto forma di presenza umana in ogni angolo del mondo. Tutti gli esseri umani che oggi vivono al di fuori dell’Africa hanno come antenato quel piccolo gruppo di africani che si mise in cammino alla conquista del mondo. A sua volta quindi questo linguaggio musicale, probabilment




e lo stesso cantato dai nostri antenati poco prima dell’uscita dell’Africa, potrebbe essere il retaggio culturale di una popolazione ancestrale dalla quale derivano tutti i gruppi etnici del pianeta.



I ricercatori hanno tracciato collegamenti tra la morfologia, i geni e la geografia. Finanziati dal Consiglio europeo della ricerca, hanno reso note le nuove scoperte sulle prime migrazioni umane dall’Africa effettuate analizzando il sistema di cavità dell’orecchio interno. Essi hanno scoperto che le differenze nella forma del labirinto osseo aumentano all’aumentare della distanza dall’Africa. Inoltre hanno dimostrato che, oltre il ruolo funzionale svolto dal labirinto osseo per l’equilibrio e l’udito, l’evoluzione ha conservato una sorprendente quantità di variazioni all’interno dell’orecchio. È una scoperta di Ron Pinhasi, archeologo dell’Università di Dublino, secondo cui l’osso petroso, contenente il minuscolo orecchio interno, contiene 100 volte più DNA di altri resti umani antichi, offrendo un’enorme quantità di materiale genetico per le analisi. L'osso temporale contiene al suo interno gli ossicini dell'udito, posti in una cavità detta cavo del timpano.

Visto che l'orecchio è al centro degli odierni studi di genetica non sono mancati i musicisti che hanno approfittato di queste nuove scoperte per intraprendere nuovi percorsi compositivi.





Il 05.04.2019 È uscito “DNA” (Ala Bianca/Warner Music), il terzo lavoro dei Deproducers, un progetto sinestetico in cui scienza e musica uniscono le forze in nome della conoscenza e della divulgazione del sapere.”DNA” è stato realizzato in collaborazione con AIRC, Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro e con Telmo Pievani, filosofo, storico della biologia ed esperto di teoria dell’evoluzione.

Un altro progetto, sinestetico è quello di Paolo Soffientini, scienziato/batterista, ricercatore di proteomica all'Ifom-Istituto Firc di oncologia molecolare di Milano, il quale vuole dimostrare che nel nostro DNA si nasconde uno spartito musicale. Anzi 23 mila, tanti quante sono le differenti proteine che abitano in ogni cellula. In pratica vengono incrociati l'alfabeto della musica con quello del codice della vita, dove a ciascuna lettera del genoma viene abbinata una nota, in modo tale che ogni gene, e quindi ogni proteina, possa diventare un suono, così si possono ottiene un'infinità di brani.


Più recente, il 5 maggio, a Pisa si è esibita la Dinamitri Open Combo, che ha presentato “Mappe per l'Eden”, un progetto che rielabora in musica il percorso dell'evoluzione musicale dalle origini dell'uomo ai nostri giorni. Un progetto di ricerca che unisce due gruppi tra i più attivi del Jazz italiano, Dinamitri Jazz Folklore e Open Combo.


"Personalmente credo che ci siamo fatti da tempo un'idea di come la musica, per le sue componenti emotive e per la sua inafferrabilità, rappresenti lo spirito che ci tiene in vita. Solamente non abbiamo ancora trovato le giusta parole per descriverla."




lunedì 15 luglio 2019

Musica Indiana






Ogni volta che termino di leggere un libro ho una strana sensazione di malinconia, come se si è
giunti al termine di un'amicizia, quando qualcuno ci lasci e lo vediamo per l'ultima volta. 
Spesso mi fermo qualche pagina prima e attendo giorni o settimana prima di leggere la fine.

 Da onnivoro di Musica, più nello specifico del “SUONO”, ascoltando un album dovrei avere lo
stesso coinvolgimento di quando leggo un libro, invece no.
La MUSICA coinvolge il nostro corpo fisico e astratto, la nostra parte razionale e l'inconscio, anche
se lieve e delicata in verità provoca un enorme rivoluzione nel nostro “ESSERE”, essendo corpi
vibranti che risuonano anche per simpatia l'emissione sonora ci domina.

 Leggendo un libro veniamo avvolti dal SILENZIO, nel quale siamo liberi di vibrare come
vogliamo, consciamente e inconsciamente, liberi di controllare il nostro coinvolgimento. 

Leggere “ MUSICA INDIANA” di Patrizia Saterini è stato un percorso emozionale, sicuramente
grazie alla condivisione dell'esperienza diretta dell'autrice, che per le interviste contenute nel libro.
Dalle prime pagine non ho avuto la consueta sensazione malinconica, forse perché consapevole che
quest'opera farà parte di quei libri inseparabili dai quali ricavo continua ispirazione.

Sono almeno 25 anni che ascolto la Musica Classica Indiana e che ne ricerco informazioni. Ci sono
poche pubblicazioni in italiano e nel tradurre quelle in inglese se ne perde alcune sfumature, un po
come nel gioco del telefono.

Finalmente ho trovato un libro valido e necessari per soddisfare la mia sete di conoscenza.
Pagina dopo pagina si entra in contatto con il vissuto di un'artista italiana che ha allargato i suoi
orizzonti guardando ad Oriente. Nonostante l'apparente lontananza culturale Saterini riesce a far
emergere elementi comuni che in seguito, almeno in Occidente, anno preso strade diverse.

Io porto sempre l'esempio di Pitagora e Platone, il primo ha indicato le basi di un flusso “melodico”
dove gli elementi mutando casualmente dando vita a naturali e infiniti intrecci armonici, mentre il
secondo in contrapposizione ha monumentato le basi di “un'armonia universale” dalla quale si
possono si estrarre molteplici combinazioni melodiche, ma non infinite perché private della
aleatoria casualità. In sintesi Pitagora rappresenta l'Oriente e Platone l'Occidente.
 In Oriente, non solo in India, per migliaia di anni si è approfondito l'aspetto melodico, dove il canto
è alla base dello sviluppo interpretativo. Il ritmo la melodia e “un'armonia armonica” risiedono
prima nel canto, poi possono essere sviluppati o arricchiti con gli strumenti musicali. 
In Occidente, anche se non esistono testi che ne convalidano la teoria ma se ne più dedurre solo
attraverso le tradizioni popolari, fino ai Canti Gregoriani più o meno lo sviluppo è stato lo stesso. 
La frattura avviene intorno al 1700 , dove si è imposta la necessità di istituire trattati per migliorare
l'approccio armonico, l'intonazione e la fruizione. 

 Con il temperamento equabile e il diapason fisso a 440 hz il sistema occidentale si è privato di
un'enorme varietà di suoni e con essi anche il loro patrimonio. Inoltre in India, e non solo, la Musica
Classica è anche quella tradizionale, mentre in occidente viene imposta un'ingiustificata differenza,
dalla quale ne derivano i termini di fruizione.
Con questo non voglio giudicare chi è meglio o peggio, ma semplicemente constatare che le scelte
hanno generato percorsi diversi. I grandi compositori come Mozart e Beethoven hanno scritto
pagine meravigliose e dal grande impatto emozionale. Di fatto, nonostante la sua giovane età, la
Musica Classica si è un po esaurita, mentre quella Indiana, della quale si conoscono testi millenari,
continua a rigenerarsi come il susseguirsi degli eventi naturali, custodendo la sua brillante
vibrazione.
Altri aspetti molto importati che emergono dal libro sono l'importanza della tradizione orale, l'arte
come insieme di generi, ma soprattutto l'aspetto emozionale.







La Prima cosa che ti voglio dire è grazie, questo libro è completo, nonostante si parla di una
tradizione orale , sei riuscita a trascrivere in maniera semplice ed efficace tutti gli elementi
necessari alla fruizione della Musica Indiana. Sarà molto utile anche a chi non ha intenzione
di praticarla ma semplicemente ricavarne beneficio dal suo ascolto. 
- Ho voluto scrivere un libro che fosse utile sia per chi è su un percorso musicale classico eurocolto
e vuole allargare i propri orizzonti sonori, per chi proviene da altri generi e vuole affacciarsi ad una
diversa cultura musicale, per chi non è un musicista ma vorrebbe conoscere i presupposti del
pensiero musicale indiano e per chi vuole intraprendere lo studio della musica classica indiana e
necessita di uno strumento teorico efficace.





All'inizio del libro viene fatta un'introduzione fonetica su come pronunciare correttamente le
parole in Sanscrito un po come si fa con i dizionari di lingue, ed è risaputo che la musica viene
considerata una forma linguistica universale. Ma nella Musica Indiana la parola assume un
aspetto più profondo, ci vuoi spiegare come ?
- L’India ha da sempre tramandato la conoscenza del suono quale portatore di energia trasformativa.
I veda, gli antichi testi sacri, sono strutturati in modo da essere veicolati e tramandati attraverso il
canto e si compongono di versi la cui corretta pronuncia, intonazione e metrica sono tramandati
oralmente da millenni. I suoni della lingua sanscrita sono considerati essere un modo per evocare e
connettersi ad una dimensione divina. Ecco che allora la corretta pronuncia diventa essenziale per
potervi accedere. Il termine dhrupad, forse lo stile musicale classico più antico, proviene da dhruva
(fisso) + pada (verso, testo). Il senso è che il testo, l’insieme delle parole che compongono i versi, è
il perno fondamentale. Le parole vengono anche frammentate in quelle che vengono definite
“sillabe sacre”. Sono estremamente potenti. E’ un tipo di conoscenza preziosamente custodita e
accuratamente tramandata da maestro ad allievo, o più propriamente, da maestro a discepolo dato
che si tratta di un sentiero non solo musicale ma anche evolutivo. 







Secondo la cultura Occidentale non è indispensabile che un ballerino conosca i principi del
fare musica o che uno scrittore comprenda il linguaggio corporeo di un ballerino. Ancora più
assurdo, dico io, che un pianista , o altro strumento, sappia cantare .
In verità nelle musica tradizionale di molti paesi si apprende prima il canto e poi
eventualmente si prosegue con uno strumento . Anche Dexter Gordon, noto sassofonista jazz,
diceva che per suonare un buon assolo bisogna prima saper cantare la melodia dalla canzone .
Il trattato risalente tra il 4 secolo AC e il 4 secolo DC al quale fanno riferimento tutti i musicisti
indiani si chiama Natya Shastra. Eppure non è un trattato musicale bensì di Arte Scenica. 
Questo perché nella tradizione indiana l’arte è un insieme di musica, danza e teatro. Non è pensabile nella
formazione di un cantante che egli non sappia danzare e nemmeno per un danzatore che non impari
a cantare, ne’ che uno strumentista non sappia cantare. Il momento musicale avviene prima
all’interno del corpo e quindi viene esternato. Che sia una frase melodica suonata o cantata, si
forma all’interno, si muove fluidamente e quindi si concretizza nella voce o nello strumento
musicale. E’ quindi fondamentale essere consapevoli che quello stesso movimento musicale è sia
interno che esterno e questa consapevolezza, che è esperienziale, lo rende carico di un’energia che
viene percepita chiaramente dal corpo di chi ascolta. E come si accede a questa esperienza?
Attraverso il consapevole movimento del corpo, la danza. Allo stesso modo lo strumentista crea la
sua frase melodica all’interno prima di esternarla, ed è la voce il primo strumento musicale! Prima
si impara a cantare, e quindi si può trasferire la propria conoscenza allo strumento. E’ così che tutto
quello che si suona diventa vivo perché segue un percorso naturale. Provengo dalla tradizione
classica occidentale, mi sono diplomata in flauto presso lo stesso Conservatorio dove, molti anni
dopo, mi sono ritrovata ad insegnare canto classico indiano. Ricordo che quando ero una
studentessa di flauto provavo il disagio di sentire la separazione dallo strumento, la sensazione di
rigidità nel corpo, la dipendenza dallo spartito….







Come viene concepita l'arte in India e perché tante persone, anche professionisti, ricercano in
essa un completamento?
Nella musica occidentale l’evoluzione è stata di tipo verticale. Abbiamo assistito alla grande
creazione della “cattedrale armonica”: i suoni sempre associati ad un accordo. L’evoluzione
progressiva è arrivata alle grandi sinfonie e quindi c’è stato un momento di stordimento. Cosa si
poteva fare di più? C’è chi ha capito che bisognava fare il percorso inverso: ricercare il suono
scollegato dalla solida impalcatura costruita attorno. E quindi la ricerca, la sperimentazione. Si è
cercato di fare qualcosa di innovativo ritornando alle radici. Il punto è proprio il fare. Nella musica
indiana il musicista non fa: è. La musica avviene tramite lui. E’ il mezzo di contatto tra dimensioni
diverse. Il movimento non è quindi egocentrico ma egocentrifugo. 
Penso che molti musicisti occidentali si volgano all’arte dell’India perché intuiscono l’enormità del
pensiero filosofico che sta alla base del fare musica e che nel mondo occidentale, forse, è stato
smarrito.

Secondo me quando si parla di monodia come di singoli suoni è sbagliato, perché ogni suono è
composto da una serie di armonici ed essi cambiano assecondo della sua qualità, in pratica si
genera “un'armonia armonica”. In questo ho ritrovato riscontro nella musica indiana, la voce
ha un trasporto più intenso, paragonato ad altri generi , il canto indiano appare
tridimensionale : Oltre alla qualità tecnica e il contenuto letterario c'è anche una profondità
molto intensa, forse spirituale, ci puoi descrivere come viene considerato ed interpretato il
suono del canto nella tradizione artistica indiana.
Il suono nel suo aspetto più mistico viene definito “nada”. E’ di quello che ogni musicista è alla
costante ricerca: quel suono che, una volta raggiunto, porta alla trascendenza. Il cantante sa che
attraverso la corretta emissione ed intonazione può avere accesso a quella dimensione. Ecco quindi
l’enfasi in una tecnica vocale che lo permetta: quella della voce naturale, senza escamotage quali il
falsetto, il vibrato e altre modalità che sembrano abbellire esteticamente il suono ma che, in realtà lo
allontanano dalla sua enorme potenzialità. La musica indiana viene definita monodica, proprio
perché utilizza un suono alla volta ma non dimentichiamo la strettissima relazione con la tonica, il
SA, che resta costantemente alla base della struttura musicale. Il termina SA significa “ciò da cui
hanno vita gli altri suoni”. Ogni cantante, dal principiante al professionista, pratica giornalmente il
SA o, potremmo più correttamente dire, si immerge a lungo nel SA, prima di intonare altri suoni.
Questa pratica rende la voce capace di emettere suoni corposi e pieni di armonici.
La scala musicale indiana non è suddivisa come quella occidentale in 12 semitoni. C’è una
microtonalità che nel tempo è stata fissata dai trattati in 22 micrononi all’interno dell’ottava sebbene
in alcuni trattati si menzioni il fatto che sono, in realtà, infiniti e dipendono unicamente dalla
possibilità di essere percepiti all’orecchio La loro intonazione dipende dal raga che si vuole
eseguire. Per capirci e volendo utilizzare una terminologia occidentale, il re bemolle di un raga può
non essere lo stesso di quello di un altro raga. Le altezze dei suoni sono mobili a seconda dell’entità
melodica che evochiamo. Parlo di entità musicale quale sinonimo di Raga per indicare come questo
non sia solo una scala musicale ma, piuttosto, un essere con le sue caratteristiche, maschio o
femmina, il suo temperamento e, soprattutto, il dono che è in grado di elargire se correttamente
evocato.

Possiamo dire che l'utilizzo e il rapporto con gli strumenti musicali in India è paragonabile ad
una seconda voce?
Certamente. Lo strumento musicale è un’estensione corporea che permette, come la voce, di
convogliare i suoni. Che sia uno strumento a corde, a fiato o a percussione, questo si connette ad
una dimensione musicale che, come detto prima, si sviluppa innanzitutto all’interno del corpo.
In India gli strumenti musicali vengono considerati sacri e quindi è normale vedere il musicista che,
prima di suonare e alla fine di ogni esecuzione, tocca lo strumento con le mani e se le porta sulla
fronte o sul cuore in segno di devozione e riconoscimento.






Qual'è la funzione della Tampura ?
Il tampura funge da bordone. Il musicista è costantemente in stretto rapporto con la nota SA. Questo
gli permette di mantenere l’intonazione. Usualmente il tampura viene intonato sulla nota SA e sulla
quinta, il PA. Se il raga non prevede la presenza del PA, al suo posto di intona il MA.
Il tampura è uno strumento davvero magnetico. La sua voce risuona alla base di ogni evento
musicale. Gli armonici delle sue note si miscelano creando un tappeto sonoro circolare sul quale
poggia il cantante o lo strumentista. 

La Musica Indiana e suddivisa in due grandi scuole, ci puoi spiegare quali sono le loro
differenze ?
La musica indostana, del nord India, e la musica carnatica, del sud, sono i due grandi sistemi.
Sebbene entrambi si basino sugli stessi trattati musicali e sullo stesso pensiero filosofico riguardo la
musica, hanno differenze dovute principalmente all’interpretazione e alla modalità di utilizzo di
quanto tramandato dalla tradizione. I “carnatici” rivendicano una maggior aderenza alla tradizione
adducendo che la musica indostana sia stata pesantemente influenzata dalle invasioni musulmane e
dalla loro cultura. Gli “indostani”, d’altro canto, vantano l’apertura verso il mondo occidentale e la
condivisione reciprocamente proficua con altri sistemi musicali. Certamente il concetto di raga è
quello che sta alla base di entrambi anche se la catalogazione è diversa e a volte alcuni raga del sud
hanno nomi diversi in quelli del nord; il concetto di alamkara, le ornamentazioni, è diverso: è
evidente quando si ascoltano le oscillazioni sulle note che nella musica carnatica sono molto più
estese; la ritmica nella musica indostana è meno prevalente che non in quella carnatica ma entrambi
i sistemi sono fortemente connessi con la danza.
La mia opinione è che entrambi i sistemi abbiano le stesse profonde radici profondamente nel fertile
terreno musicale di una terra che ha concepito l’idea di musica quale mezzo di salvezza. 

Secondo una prospettiva anche orientale non si può parlare di musica senza menzionare anche della danza, un'altra delle tue “passioni”, quanta musica c'è o ci deve essere nel corpo
che danza?
Moltissimo. Molti anni sono stata forzata a diventare una ballerina. Ero lontanissima da quell’idea.
Venendo dalla musica occidentale non riuscivo a concepire perché avrei dovuto danzare per poter
capire come cantare. Ebbene, benedico la persona che mi ha “costretta” ad accogliere il canto nel
corpo danzante e la danza del corpo cantante. Alla fine ho sperimentato che non sono due cose
diverse: sono due angolazioni della stessa immagine. E l’esperienza ha profondamente cambiato la
mia vita e il mio approccio alla musica.

In questo momento storico sempre più globalizzato dove tutto è al sapori “Di” non si sa bene
cosa , si stanno perdendo molte tradizioni. Anche l'aspetto digitale non aiuta, esistono tutorial
per ogni cosa, persino per apprendere la Musica Indiana. Eppure la tradizione indiana
sembra sempre più solida. Possiamo dire che uno dei suoi pilastri è la tradizione orale ?
Non è possibile percepire la microtonalità da un tutorial su youtube, ne’ l’anima di un raga, ne’ fare
un serio lavoro sulla propria voce: superficialmente si può apprendere molto, la linea melodica,
magari anche la ritmica o le nozioni teoriche, ma è come quando tracciamo uno schizzo della strada
per arrivare in un particolare luogo per una persona che non vi è mai stata: possiamo indicargli di
“girare a destra, al secondo semaforo girare a sinistra, andare dritto per due rotatorie. Ma non saprà
quali e quanti alberi costeggiano la strada, il colore del cielo sopra le case, il suono delle cicale
accanto al fossato o le lucciole nella stradina di campagna. C’è solo l’esperienza personale e questa
può essere efficacemente conseguita solo grazie ad una guida. Da sempre la musica indiana è stata
tramandata attraverso un paziente lavoro di trasmissione orale, da maestro ad allievo. 

Non voglio anticipare troppo, però prima di salutarci vorrei chiederti quanto è importante il
tempo secondo la filosofia indiana?
Nella filosofia indiana il tempo è circolare. Infatti non si dice “il ritmo” ma “il ciclo ritmico”. In una
visione secondo la quale il creato viene in essere da un suono e viene estinto da una danza, la
ciclicità ritmica assume un significato molto profondo. E’ come il pulsare dell’esistenza che emerge
e si riassorbe. Il ciclo ritmico è come una pergamena che viene srotolata e quindi nuovamente
riavvolta su se stessa raccontando la storia del mondo.